...e insomma, ho rischiato di non poter condividere con voi il mio recente vissuto?
Meno male che invece posso farlo, con la suspance creatasi nel mentre il buon
@atchoo ci sarebbe rimasto troppo male
Vi dicevo, alla fine il COVID me lo son fatto, con tutta la mia famiglia. A Pasqua.
A casa siamo in 3, io (46 anni) mio padre (70 anni) e mio fratello (38 anni).
Viviamo felici in un'abitazione di un 100mq su 2 livelli.
Papà inizia a non stare bene, diversamente dal suo solito, venerdì 26 marzo. La sera, qualche linea di febbre. Stanchezza. Il giorno dopo (sabato 27) lo convinco ad andare a farsi un tampone rapido in farmacia, nonostante non avrebbe potuto/dovuto (ti chiedono se hai sintomi, e se ce li hai non ti fanno nulla).
Il tampone rapido esce NEGATIVO. Per un po' ho coltivato l'idea che fosse solo un malanno di stagione, visti anche gli importanti sbalzi di temperatura del periodo e il fatto che avesse fatto dei lavori di fatica all'aperto assieme a mio fratello.
Domenica e lunedì passano, la situazione sembra stabilizzarsi ma non ci convince a pieno. Ancora qualche linea di febbre che va e viene. Martedì 30 papà passa in farmacia e si fa misurare l'ossigenazione: ce l'ha a 94 e la farmacista gli intima di sentire il medico, "che non va bene". Lo sente in giornata, il medico - correttamente - gli dice di starsene a casa e di prendere tachipirina/brufen all'occorrenza (se la febbre dovesse diventare eccessiva, o i dolori diventare più intensi). In quell'occasione gli fissa il tampone per venerdì 2 aprile (venerdì di Passione, non a caso...). Nel frattempo io e mio fratello iniziamo ad avvertire che qualcosa non va già la sera del 1 aprile: il 2 io non ho febbre ma non sono chiaramente a posto, non di meno (sbagliando) decido di andarmene lo stesso al lavoro (because reasons) ma quantomeno di vedere meno gente possibile. Non incontro sostanzialmente nessuno, niente febbre (abbiamo una piantana da pavimento con misuratore istantaneo di temperatura in ufficio) ma tutto rotto, palesemente ammalato.
Arrivo a casa alle 17.30 di venerdì 2, giusto in tempo per ricevere la notizia del
tampone POSITIVO di papà. OK, ci siamo. Tutti reclusi e in fervente attesa. Teniamo a portata di mano termometro e pulsossimetro (un retaggio di quando mamma lottò col tumore nel 2014, con le bombole di ossigeno per casa...), misuriamo spesso forse anche troppo spesso. Da sabato 3 io inizio ad avere febbre, intorno a 37.7, a ondate, la mattina e la sera. Malessere generalizzato, ossa rotte, non grandi dolori ma una marcata spossatezza.
Passo il tempo a trascinarmi dal divano al letto e a dormire. Non prendo niente, la febbre così non mi spaventa e non mi è insopportabile. La sento tutta, ma dormo. Mio fratello presenta qualche linea di febbre, spossatezza ma sembra avere un decorso molto più blando. Papà ha febbre più elevata (mai oltre 38 in ogni caso) ma più continua, una tosse grassa (cosa strana) e - ovvio - grande spossatezza. Facciamo il minimo indispensabile,
c'è poca fame. Curiosamente nessuno di noi tre ha perso - nè perderà - gusto e olfatto.
Domenica di Pasqua 4 aprile papà si sente peggio, e riesce a mettersi in contatto col medico (via whatsapp, stiamo evoluti sui monti con Annette): oramai erano 8 giorni pieni che aveva febbre più o meno intesa e sintomi evidenti. Il medico gli dice di iniziare con cortisone (prednisone) dalla mattina del giorno dopo. La dose per un paio di giorni ci viene portata dalla guardia medica, che passa sulla finestra della cucina la mattina di lunedì di Pasquetta (5 aprile), smontando dal turno.
Martedì 6 aprile papà è sempre KO, saturazione scesa intorno a 91: richiama più volte il medico, il quale gli dice di iniziare anche con l'antibiotico (sospettando una "sovrapposizione" al COVID di un'infezione batterica alle vie aeree). Avendone già in casa, inizia a predere il Bassado (doxiciclina) già dal giorno stesso. Nel frattempo mio fratello sta discretamente, anche se inizia a somatizzare ed impanicarsi (come da suo tratto caratteriale) vedendo me e mio padre sempre più KO. Ha paura che ci lasciamo la ghirba. Dagli torto.
La sera del 6 aprile io mi sento più fiacco del solito, percepisco la febbre e infatti ce l'ho a 38.5. La mia ossigenazione, fin qui stabile intorno ai 95, è scesa improvvisamente a 90/91. Facendo il classico "respiro profondo" mi blocco e inizio a tossire, un peso sullo sterno. Un po' (eufemismo) mi preoccupo, ma cerco di non darlo a vedere. Non trovando il mio dottore (diverso da quello di papà e fratello)
mi metto in contatto con una amica di famiglia, ex infermiera di reparto in pensione da un paio d'anni. Si fa spiegare tutto l'iter, e a me fa:
non perdere tempo inutilmente, vestiti e vai al Pronto Soccorso (a 15 km di distanza). Bisogna vedere se c'è qualcosa in atto, che è molto probabile. Non essendo esattamente in condizione di guidare un veicolo, mi faccio accompagnare da mio fratello. Arriviamo lì, un po' ci squadrano ma subito ci fanno entrare nella sezione "COVID". Visitano me e con l'occasione anche mio fratello: una visita approfondita, con tampone (funfact: mio fratello l'aveva fatto in mattinata ed era ancora in attesa dell'esito, io l'avrei dovuto fare la mattina successiva), analisi del sangue complete, elettrocardiogramma e infine una
ecografia al torace. Siamo entrambi positivi (maddai), gli esami e - sopratutto - l'eco dicono che mio fratello sta sostanzialmente bene ed è già in via di guarigione, con polmoni puliti.
Io invece ho un principio di polmonite bilaterale ben evidenziabile, e pertanto il medico di PS mi prescrive di iniziare dalla mattina del 7 aprile il cortisone, e continuarlo per una decina di giorni. Monitorando con regolarità febbre, e ossigenazione. Da rivedere al bisogno.
La mattina del 7 io inizio la cura,
mentre papà inizia a dare segnali di miglioramento.
Da qui la strada è in discesa: ancora febbre, ancora spossatezza ma con spiragli di luce che si intravvedono. Ogni giorno un po' meglio, prima papà, poi anche io. Dicono che il cortisone fa miracoli, posso concordare. Il peso sullo sterno inizia a farsi meno opprimente, il respiro più ampio e l'ossigenazione a tornare su livelli accettabili (papà 94/95, anche io 95). Passano i giorni, tornano le forze e l'appetito (sempre ottimo segnale), poi i tamponi di uscita, sperando che non ci siano sorprese: papà si negativizza il 14, max il 15 ed io il 16.
Rientro al lavoro il giorno 20 aprile, al termine della malattia.
Da questa esprienza diretta, con lieto fine, ho acquisito consapevolezza di alcune cose che ritengo fondamentali:
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la medicina sul territorio, quella di "prossimità" è insostituibile: una equipe di medici volontari (sic) ci contattatava ogni giorno (su segnalazione del medico curante) per sapere come stavamo, e rilevare i valori di febbre e ossigenazione. All'occorrenza so che possono raggiungere le singole abitazioni e fare ecografie a domicilio. Vitale.
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il network di contatti e conoscenze personali è ancora TROPPO importante, troppo determinante. Mi immedesimo nell'anziano che sta da solo. O nella famiglia con problemi altri da gestire, poco attenta. Poco preparata. I medici - ahimè - li devi tirare per la giacchetta, devi essere consapevolmente "scortese" per attirare la loro attenzione. Magari eccessivamente. Non va bene.
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un pulsossimetro in ogni abitazione. Di tutti gli strumenti, direi quello più irrinunciabile: ti permette di capire se le cose non stanno andando bene PRIMA che sia troppo tardi. Con l'ossigenazione - in calo - a 90 è ora di intervenire, il problema è che se non hai un misuratore e ti limiti a stare sul divano o nel letto, con la febbre, poche forze e senza muoverti e ti chiedono: come sei col respiro? Tu dici bene, ma già non è così. Quando poi inizi ad annaspare e far fatica "a dare il giro" del respiro, è tardi. Credo - ahimè - che molti anche in salute e che si sarebbero potuti salvare siano caduti vittime dell'attesa e della non consapevolezza, in un mix di eccessivo pudore o confidenza nei propri mezzi. Un pulsossimetro costerà al massimo 10 euro su grandi volumi:
con 200 milioni di euro fornivi ogni singola abitazione d'Italia. Altro che banchi a rotelle.
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timing is the word: tutti i medici con cui ho parlato non hanno mancato di chiedere (e richiedere) le solite 2 cose: quando sono iniziati i sintomi (sia più preciso possibile, mi raccomando!) e quali fossero questi sintomi.
Ho compreso che idealmente esiste una finestra di opportunità molto stretta (24/48 ore) in cui è necessario avviare la terapia cortisonica. Troppo presto ti ammazza, troppo tardi non serve a niente.
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vaccini, vaccini come se piovesse. Ho un po' imprecato la sfiga perchè in FVG hanno aperto le vaccinazioni ai 70+ proprio il 1 di aprile, papà era pronto a vaccinarsi dopo 1 anno e più di dribbling e cautela nei confronti del virus. Ma è stato raggiunto al fotofinish. Io e papà non abbiamo comorbidità importanti,
fatto salvo il fatto di essere entrambi sovrappeso con indici BMI non desiderabili (al limite dell'obesità), e probabilmente già "solo" questo ci ha esposti un po' di più. Ma quando leggo di gente che si sente INVULNERABILE perchè è fit, mangia sano e fa sport e si sente di spaccare il mondo a 39 anni, mi viene un sorriso amaro: certo, statisticamente le probabilità che tu muoia di/con/per COVID sono molto inferiori a quelle del novantenne col fegato a mezzo servizio e 2 ictus alle spalle...
ma puoi restarci secco o mal messo comunque, anche e soprattutto per l'ARROGANZA con cui potresti affrontare il virus. Che è una brutta bestia. Insidiosa. Mutevole. Spietata.
Adesso aspettiamo il nostro turno: dicono che la vaccinazione - per chi è già stato a contatto col virus - vada fatta non prima di 3 mesi e non oltre i 6 mesi dall'infezione. Papà si metterà in lista per fine luglio/inizio agosto, io e mio fratello auspicabilmente subito dopo.