L'idea che mi sono fatto è che Death Stranding sia un'esperienza generata da una mente colta, raffinata, sensibile. Un'esperienza condivisa attraverso una forma espressiva ancora poco studiata e compresa, soprattutto dalla sedicente critica che poi tale non è quasi mai, la cui arretratezza culturale viene puntualmente confermata ogni volta che un titolo innovativo e/o dalla forte carica affettiva (intesa come intensa relazione tra corpi e spazi, materiali e virtuali) viene liquidato per presunte carenze del 'gameplay'.
Dalla recensione di IGN USA: "If Death Stranding sounds like a series of glorified fetch quests, it’s because that’s exactly what it is." Se avesse scritto "Sono una capra e ci tengo a farvelo sapere" avrebbe almeno potuto sperare in un riscatto.
Ciò che ai miei occhi distingue Kojima da molti altri game designer dalle grandi aspirazioni, è la sua capacità di controllare doti e carenze del pubblico a cui si rivolge (sia quello 'istituzionale', sia in riferimento al mercato), favorendo contrapposizioni così forti che insieme danno vita a un potentissimo immaginario comune. Di guerra, avversione reciproca, quello che volete, ma vissuto, combattuto. Ogni suo gioco è l'etteralmente uno 'shock' per questa industria. Questo gli permette di garantirsi quel volume di vendite in grado di non farlo precipitare nel limbo dei game designer velleitari ma, anzi, di esprimere le proprie intuizioni di gameplay, creative, artistiche con rinnovato coraggio.
Insomma, non vedo l'ora di giocarlo, in qualche modo.