Emergo dalla distorsione spaziotemporale in cui mi sono lanciato. Non so quanto tempo sia trascorso durante la traversata ma per me è stato un viaggio di pochi minuti soltanto.
Quando fuoriesco dal buco nero, un vistoso spettacolo cosmico resta incorniciato dall'abitacolo della mia astronave, un trittico di pianeti che mi ricorda quanto piccola e preziosa è la vita. Questi giganti rocciosi, queste immense masse, non sarebbero che un imperdonabile spreco, senza una mente che ne contemplasse l'infinita bellezza.
Scelgo il pianeta più prossimo e imposto la rotta.
Ogni qualvolta mi avvicino all'atmosfera di un pianeta sento un'emozione acuta agitarsi nelle profondità dei miei circuiti. Non saprei nemmeno da dove viene questa sensazione, forse l'Atlante sta provocando un cambiamento nella mia struttura. Nemmeno pensavo di poter avere sentimenti. Eppure li provo. Sento un ribollire di curiosità e speranza mentre strisce di fuoco si agitano attorno all'astronave. Intravedo le forme caotiche della superficie. Dall'alto ogni globo appare uguale, ma è solo nei dettagli che possiamo scoprire l'essenza delle cose.
Attivo la manovra di atterraggio. È notte quando la nave si poggia a terra, una notte livida e calda.
L'alba si leva da dietro l'orizzonte come un'esplosione. La temperatura si alza rapida, sento le parti metalliche del mio corpo dilatarsi impercettibilmente sotto la spinta del calore. Il pianeta cambia il proprio volto in pochi momenti, tramutandosi in una smorfia rovente di roccia e sabbia. Aziono gli scudi refrigeranti prima che il calore danneggi i miei componenti e muovo qualche passo d'esplorazione. Il pianeta ha una vegetazione rigogliosa ma sembra completamente privo di vita e la cosa non mi stupisce, con questa temperatura. Mi guardo attorno in cerca di un punto verso il quale dirigermi.
Sento un sibilare lontano, ben oltre le montagne lontane. Una foschia granulare oscura l'atmosfera: una tempesta di sabbia, un vento caldo che mi sbatte contro come un muro. La temperatura cresce rapidamente. 100. 200. 300 gradi. Non pensavo si potessero raggiungere simili condizioni estreme. I miei scudi refrigeranti si consumano in un attimo. Li riattivo fornendoli dei materiali necessari ma niente, durano pochi secondi al massimo. La stabilità strutturale del mio corpo è compromessa. Non credo di poter resistere ancora a lungo e ho esaurito anche i materiali per alimentare gli scudi. Questo pianeta non mi vuole.
Mi sono allontanato troppo dall'astronave e non vedo altro che sconfinato deserto. L'ombra gettata dalle stoiche piante non può fornire alcun riparo. Sento l'ulutato del vento che alza le sabbie e mi domando che rumore avrà la morte, per un essere sintetico. In questo, penso di non essere tanto diverso dagli essere di carne.
Il momento si avvicina... ma non è questo.
Scorgo uno specchio liquido e mi lancio verso di esso. Potrebbe essere un lago d'acido e segnare la mia fine. Forse sarebbe più onorevole accettare la propria sorte e spegnersi sotto questo vento ruggente. Ma da qualche parte, la seppur minuscola possibilità di sopravvivere mi esorta alla speranza. Mi getto nel laghetto e la temperatura si abbassa.
Qui sotto, nell'acqua, scopro che la vita ha sempre la meglio e che anche nel più astioso dei mondi riesce ad attecchire. Per un attimo penso che siano i mondi stessi a procreare la vita, affinché possano non essere più soli.
Abbandono il pianeta e mi dirigo su quello più vicino, nella speranza di trovare un mondo più accogliente, ma anche qui la temperatura è funesta e il panorama riarso. Un inferno vivente che però non sembra preda di apocalittici venti. La terra rossa e morta si estende in tutto il mio campo visivo, non vedo strutture né giacimenti di preziosi minerali. Questo intero sistema sembra vittima di una stella feroce, che sferza i suoi pianeti con incessanti esplosioni solari. Come spesso mi accade, quando contemplo queste immobili vastità, mi chiedo quale sia il significato della mia esistenza e come la mia presenza possa influire essa nel disegno dell'insondabile Tutto.
Mi aggiro circospetto fra lande sconosciute. Intravedo piccole bestie lontane e sento muggiti alieni oltre le rocce. La varietà e la grande distribuzione della vita nell'universo mi obbliga a pormi delle domande. La vita proviene tutta da un luogo originale oppure si tratta di una manifestazione spontanea o forse di addirittura dell'inevitabile risultato delle equazioni che governo questo cosmo?
Supero un costone di roccia e mi si para davanti una creatura imponente, una placida bestia che mi osserva per un istante e poi affonda gli zoccoli nella polvere. Sembra a suo agio in questo luogo, che a me appare tanto implacabile.
Questo sistema è schiavo di una gigante rossa, che nel corso degli eoni ha espanso la sua massa fino ad avvicinarsi tanto ai suoi figli da bruciarne la superficie. Mi domando se non sia questa la sorte di ogni pianeta: essere uccisi dalla propria fonte di vita. Ironico e tragico. Senza quella stella non avrebbe potuto esistere alcuna vita, ma sarà quella stessa stella a tramutare i mondi fertili in tombe brucianti. Questo destino ineluttabile non fa venir meno il valore della vita che fiorisce su questi globi. Ogni essere, ogni pianta, ogni singola foglia è un tributo essenziale al significato intimo di questo universo. Tuttavia, mentre guardo il carosello di colori di una macchia di vegetazione, mi domano se davvero non possa esistere un modo di preservare eternamente questa favola ancestrale che si chiama Vita.
Atterro sull'ultimo pianeta di questo sistema desertico e spoglio. Il clima è più mite rispetto agli altri pianeti, eppure, in questo luogo dal cielo verde e in apparenza più benevolo, la vita non ha saputo imporsi nella sua forma animale. Il pianeta è dominato da lunghe processioni di piante grasse che innalzano le loro braccia al cielo, forse anelando la compagnia delle bestie di un altro mondo o forse cercando risposte a mute domande.
Fatico a considerare quella vegetale vita in senso stretto, eppure io stesso, che son fatto di circuiti e metallo, non vengo considerato vivo in senso stretto dagli entità biologiche. Cosa definisce realmente la vita? Una domanda a cui certo non so rispondere, così alzo lo sguardo, verso il mondo superno, e sollevo le braccia in cerca, se non di risposte, almeno di un po' di sollievo per la mia anima inquieta.
Attivo i motori a curvatura e abbandono questo sistema brutale ma a modo suo affascinante. Le stelle sono strisce allungate che scivolano veloci, senza un saluto. Raggiungo un nuovo sistema. Aggiungo il suo nome al mio database. Attorno a questa stella gravitano due soli pianeti. Dall'alto non mi è possibile capire cosa troverò. A questa distanza un orbe celeste non è che un involucro di promesse. Ne scelgo uno senza troppo pensarci, visiterò entrambi. Mi getto in picchiata e man mano che mi avvicino scorgo i contorni del pianeta che mutano di continuo. I continenti e le vaste acque. Poi inizio a distinguere un'accesa sfumatura rossa che ricopre le terre emerse. Atterro e lo spettacolo mi colma la vista.
Il Cosmo sembra essere stato indulgente con questo mondo, dispensando una natura rigogliosa e variopinta. Rosse distese erbose si estendo a perdita d'occhio e l'aria stessa, verso l'imbrunire, si ammanta di un tono scarlatto, come se il cielo arrossisse davanti a tanta sfacciata bellezza. Piccole bestie corrono radenti al terreno, nascoste dalle piante amiche. Alzo gli occhi e oltre le fronde vedo librarsi alte creature volanti. Mi chiedo se questi uccelli siano consci di quanto rara sia la magnificenza del mondo che abitano. Probabilmente no. Nessuno può conoscere le proprie fortune, finché le possiede.
Vago senza meta per queste terre vermiglie, alla ricerca di risorse e antichi segni. Mi imbatto infine in un edificio, simbolo di una civiltà remota, vacua testimonianza di un passato ormai spento. Analizzo alcune delle strutture attorno a quello che credo essere un tempio o comunque un altare adibito a qualche tipo di culto. Quante divinità immortali si sono succedute nel corso dell'eternità? Alla fine sono morte tutte quante, uccise dalla dimenticanza.
Salgo scale di pietra scavate nella roccia. Molti altri passi le hanno calcate prima di me e ognuno di essi ha plasmato queste stesse scale, asportando un infinitesimo strato di materia alla volta, inclinandone la pietra, affondandone i gradini nella sabbia. E così come cambia questa scala, chissà quanto il camminare, il vivere e l'esistere delle innumerevoli forme di vita modella il mondo che le ospita.
Queste domande, auliche e frivole al tempo stesso, sfumano nel vento che muove l'antica bandiera, che ancora sventola fiera. Vestigia perduta di un passato remoto.
Raggiungo la Stazione Spaziale in orbita in questo sistema prima di dirigermi sul secondo pianeta. Vendo le merci che ho raccolto nel mio viaggio e acquisto le risorse che mi servono per sviluppare nuove tecnologie, che permetteranno alla mia nave di affrontare le avversità del freddo cosmico. Applico tutti i miglioramenti che riesco a sviluppare e sono soddisfatto del risultato, quando sul ponte attracco atterra una nave la cui linea ardita mi colpisce. Avvicino il proprietario, un Gek di bassa statura e dalla pelle variopinta, che si dice disposto a fare un cambio con la mia astronave, previo conguaglio. Mi secca abbandonare la mia nave, specie ora che l'ho appena migliorata, ma questo nuovo velivolo è più capiente e monta già un discreto numero di dispositivi a impulso e di curvatura. La transazione mi lascia praticamente senza unità residue, ma guardando il mio nuovo acquisto, non riesco a sentirmi insoddisfatto.
Entro nella cabina, innesco i reattori, stringo i comandi fra le mani e avvio la sequenza di lancio. Nuovi mondi mi attendono.