Perfect Days di Win Wenders.
È un film di 2 ore sulla routine giornaliera di Hirayama, un giapponese di una 50 anni pulitore diligentissimo dei bagni pubblici di Tokyo.
Una ruotine mostrata giorno per giorno, senza lesinare in particolari, dalla sveglia 'analogica' fino alla lettura di un libro prima addormentarsi.
E quella mostrata è una vita semplice , umile, che possiamo considerare persino spoglia.
Piccoli rituali, gioie e fastidi che accadono giorno per giorno.
Una vita a suo modo passiva, trascinata e tutta centrata sul lavoro svolto con irreprensibile diligenza.
Però a volte il mondo sconvolge i tuoi equilibri, magari per un collega più giovane comandato dagli ormoni o per una visita inaspettata che ti ricorda che tutti hanno un passato e che, se finora lo hai sempre cercato di scansare, quando ti si ripresenterà farà malissimo.
Insomma una vita che valeva assolutamente la pena essere filmata ma tutto quello che accade nel film viene mostrato con una semplicità e naturalezza che sembra muoversi da solo, senza sottolineare nulla come se lavarsi i denti fosse ugualmente importante a rivedere una persona dopo anni.
Lo considero il tipico film a cui spetta allo spettatore riempire, a partire dai numerosi non detti o appena suggeriti, come per il passato del protagonista.
E se il film ti trova vuoto, è normale non apprezzarlo, giudicarlo sterile.
E io sono stato particolarmente fortunato per come mi abbia guardato vivere e riprodotto sullo schermo.
Che poi è quello che succede anche ai personaggi del film.
Che l'arte, la prova massima, insieme alla tecnologia, del nostro passaggio sul mondo ha una universalità.
Quindi non c'è niente di strano che una adolescente giapponese platinata si identifichi in una adolescente americana degli anni '70 tramite una canzone.
O la nipote del protagonista con il personaggio di un vecchio libro.
A questo servono le storie, a creare una visione collettiva del mondo e a riconoscersi.
E questo concetto viene espresso potentissimo tramite film in maniera impeccabile.
Altro aspetto interessante del film, è come si prende giustamente in giro che scherza per primo sulla sua modestia, attraverso un uso incongruo delle canzoni, dove l'immagine che accompagna
The House of the Rising Sun non è la pianura americana ma un raccordo di Tokyo con tanto di inquadratura panoramica a 180 gradi per sottolineare il gioco degli opposti.
Finisco solo per sottolineare ulteriormente quanto mi abbia colpito nel vivo questo film con il rapporto con la nipote.
Io ne ho 2 e mi ha francamente commosso quella parte, descrive bene quel rapporto, quel nervo tenero ma anche pungente che una figura del genere può rappresentare in una vita come quella Hirayama.
Mi sembra che il cuore principale del film siano i sorrisi abbozzati del protagonista che riesce a trovare bellezza dappertutto, o quantomeno si sforza di trovarla, in un ambiguo rapporto tra autoconvinzione e stoicismo.
E’ questo il che mi ha colpito di meno. Però ripeto è un film che l'ho preso così sul personale, che mi obbligato a ragionare su te stesso, che quella parte l'ho mentalmente accantonata, nonostante la prova attoriale nel finale.