Sì, la penso come voi, devono assolutamente metterci dentro tutto.
Realisticamente, è vero, si tratta di una sfida assai impegnativa, ché il Final Fantasy VII originale era una produzione megagalattica per i suoi tempi e solo l’idea di tradurla oggi, con uno standard qualitativo da tripla A, mette soggezione.
Cioè, così su due piedi, mi vengono in mente lo snowboarding, la chocobo race e mille altre situazioni che già negli anni Novanta erano impegnative da inserire, ma, anche facendo le dovute proporzioni, richiedevano uno sforzo tecnico-grafico-economico irrisorio rispetto a oggi.
Va detto, però, che questo remake è la migliore occasione che l’intera scuola videoludica giapponese si è creata nell’ultimo lustro per tornare in auge sul mercato, prima di tutto in quello del proprio Paese.
Sia Square sia Sony non fanno mistero che vedono questo progetto come la principale scelta strategica sul territorio nipponico per aumentare la diffusione delle console casalinghe e incrementare la vendita dei relativi videogiochi.
Allo stesso tempo, la 'legacy' che FFVII ha conservato in USA e in Europa, essendo uno dei titoli più rappresentativi dell’epoca in cui il Giappone dominava incontrastato il mercato console, è il pilastro su cui poggiare per riacquistare popolarità e fiducia a livello globale.
Il momento è propizio, il game design occidentale è ancora al suo perielio ma dà segni di stanchezza, essendo entrato nella fase autoreferenziale (vedi conferenza Ubisoft ed EA). Una nuova alternanza ai vertici delle tendenze videoludiche, in termini di 'scuola di pensiero', si rivela necessaria nella media distanza per non atrofizzare il mercato, ché anche chi vive solo di football, open world e FPS alla lunga si stanca. Così come si sono stancati in precedenza quelli che vivevano di soli picchiaduro one on one, JRPG e survival horror.
Insomma, voglio crederci.