PARTE 1Allora, piccoli spoiler sulle ambientazioni, per cui a vostra sensibilità.
Incredibile parlare di questo gioco e in questi termini visto che:
1) Non m’interessava comprarlo;
2) Avevo maturato una sorta di antipatia del distacco;
3) Non è mai stata una mia passione, visto il ridotto peso specifico della parte giocata.
Invece il destino ha determinato tutto ciò, fortunatamente per me.
Kingdom Hearts 3, anche per ragioni temporali dovute alla lunga pausa intercorsa tra i diversi capitoli della saga, è necessariamente un gioco della memoria. Prima di tutto come struttura e come filosofia. Tralasciati (più o meno intenzionalmente, chissà…) i guadagni della contemporaneità in materia di mondi virtuali aperti e connessi,
KH3 decide di rifugiarsi tra le radici spesse ma consunte dell’arcade adventure tridimensionale di quasi 20 anni fa. Vale a dire una serie di spazi chiusi, dai confini netti, a tema e monografici rispetto all’ambientazione globale che li accoglie e piuttosto rigidi nello scandire l’esplorazione.
La natura gioiosa, a tratti infantile, con cui il gioco indugia sulle pratiche tipiche dell’infanzia (la giostra, l’acqua, il gruppo ricreativo ecc.) è un link inter-emotivo con il tema portante del titolo, quello della convergenza affettiva tra cuori che battono all’unisono per una ragione (non per forza razionale) che li porta al consesso. Giocato al massimo livello di difficoltà (Critical) il gioco è tutt’altro che privo di finezze strategiche e decisioni esecutive. Naturalmente non si sta parlando di una meccanica strettamente vincolata a esemplari modelli ludici, è e rimane un arcade adventure a forte vocazione narrativa nel quale la parte prettamente bellica è declinata al proseguimento della storia, seppur con molto equilibrio devo dire. Non così presenta da decretarne il destino ma neanche così rarefatto da potersene bellamente infischiare.
I mondi Disney, come da tradizione del franchise, sono colti
in media res rispetto alla trama delle rispettive opere e non manca una certa forzatura nell’inserimento di Sora e compagni. In particolare, nel caso di Frozen e di Pirati dei Caraibi, se non si conoscono molto bene i rispettivi intrecci di riferimento si fa molta fatica a capire cosa accada e perché. In realtà il problema andrebbe ascritto in quello che, a mio modo di vedere, è il difetto più rilevante del titolo. Mi riferisco all’eccessivo periodo di tempo trascorso tra i precedenti titoli della saga e il presente
KH3. Troppi eventi, troppi personaggi esteticamente sovrapponibili e un pasticcio tutto orientale nella gestione di anime, spiriti, involucri, corpi, separazione, frammentazione e fusioni assortite. Un impianto narrativo che, qualora fosse anche ben inteso, lascerebbe comunque intatto tutto il biasimo per una storia che avrebbe potuto essere molto più semplice senza tuttavia limitare il suo apporto emotivo. Una vicenda di cuori confusi, spezzati, ricomposti e occupati abusivamente che alla fine non ha altro dispositivo se non “
Va’ dove ti porta il cuore…”, come da snodo narrativo prevalente nei momenti di stallo. Personalmente ho davvero sofferto questa cosa, considerandola, a tutti gli effetti, una criticità concreta del titolo che gli toglie l’eccellenza.
Io credo che per apprezzare adeguatamente
KH3 sia necessario:
1) Giocare a livello di difficoltà “Critical”. Non è semplice e forse, neanche del tutto saggio. Del resto è un’aggiunta posteriore, basata sulla forzatura di alcuni coefficienti che riguardano energia, cura e danno che arreca il nemico. La questione è fondamentale poiché questo accorgimento da una parte cozza con la natura non ineccepibile del modello di combattimento (messo alla prova da una telecamera nervosa e dalla vocazione al button smashing), mentre dall’altra obbliga il giocatore a ricorrere efficacemente agli strumenti che ha a disposizione. E la sorpresa sta proprio qui, il gioco prevede diversi accorgimenti per ispessire i combattimenti, soprattutto in riferimento alle dinamiche innescabili con la parata e il movimento dato dal Focus che, da aspetto puramente coreografico muta in fretta in una prerogativa /offensiva/difensiva per il giocatore. Gli esordi sono drammatici, uno, massimo due colpi per morire e quella sensazione amara e sgradevole del gioco non testato per l’occasione. Ma se si ha la forza d’insistere e la tigna necessaria per non scoraggiarsi,
KH3 comincia a cambiare la sua natura e diventa un gioco meritevole di attenzione, attenzione videoludica.
2) Il gioco andrebbe esplorato ed esaurito in tutte la sua titanica offerta. A parte l’incredibile qualità audiovisiva che accompagna tutto il gioco, a stupire è la cura posta nelle diverse componenti che movimentano il gameplay. Lo dico da detrattore del concetto di “minigioco” innestato nel tronco di un gioco che di per sé dovrebbe essere sempre completo, rifinito e soddisfacente. Le diverse attività che si affrontano all’interno di
KH3 non sono avulse dal tenore divertente del gioco, anzi, specificano ancora di più alcune caratteristiche diegetiche delle diverse ambientazioni. E non sono superficiali, soprattutto se si decide di approfondirne le meccaniche in chiave di completismo. Minigiochi apparentemente semplici e discorsivi diventano meccanismi da capire, utilizzare e mettere a frutto. Pensati e dedicati ad accrescere le competenze in materia di movimenti e conoscenza del moveset, un genere di allenamento che poi si mette a frutto nel corso della storia principale. Anche tutta la parte relativa alle Gummiship è dotata di cura maniacale. A parte l’editor che si conferma duttile e preciso, la parte spaziale, con tanto di musica assimilabile a Star Wars, regala ore e ore di libera esplorazione e segreti interessanti, del tutto legati alla progressione del gioco classico. Un titolo nel titolo, un esempio tra tanti di cura maniacale.
La scansione del gioco è presto detta:
OLIMPO: il gioco inizia alla grande ma la magnificenza del mondo di Hercules si comprende solo ritornandoci più avanti, cercando oggetti. Questo a causa dalla sua funzione di tutorial espanso, per cui a una prima tornata i filmati bloccano in continuazione la libera progressione. In realtà è davvero ben fatto, si comincia dall’agorà di Tebe, la zona dei templi, i giardini e poi si risale il monte Olimpo, fino alla casa degli dei. Quindi molta varietà, la parte cittadina, poi balze e dirupi montani con caverne, fino ad arrivare all’empireo, dove è tutta luce sacrale e superfici eburnee. Probabilmente si tratta di uno dei livelli più complessi e pieni di segreti/variazioni, per attraversarlo e ripulirlo ci vogliono diverse ore. E’ un buon esempio della
filosofia – amarcord che permea il titolo, grandi aree compartimentate e dotate di tante piccole deviazioni e distrazioni che si raccordano armoniosamente, in modo più verticale che orizzontale.
Nemici molto semplici e un boss finale che a Critical, rispetto al basso livello del giocatore, potrebbe essere fin troppo punitivo. Non so se sia stata una buona idea quella di mettere quest’ambientazione all’inizio, probabilmente sarebbe stato meglio optare per luoghi più familiari e lineari come Crepuscopoli, diciamo che il giocatore affrettato e rapido può perdersi le potenzialità di questo, magnifico, livello.
CREPUSCOPOLI: ripresa dal passato e particolarmente familiare per colori, musica e senso di comfort. In realtà è una specie di hub non ufficiale dove intrattenersi con gli aspetti gestionali del titolo. Per quanto piccola e limitata, Crepuscopoli avvolge con la sua atmosfera diafana e quel retrogusto da Parigi anni ’30 fatta di case dai mattoni arancionati, abbaini, lucernari, un vecchio tram romanticamente lezioso che addormenta il tutto con fare trasognante. E’ anche una discreta palestra per apprendere i fondamentali del gioco, soprattutto in merito alla possibilità esplorativa radicale data dal movimento sui muri. E’ un piccolo scrigno di segreti e curiosità, almeno nella sua parte cittadina. La parte della foresta e successivamente della casa, ha un valore più che altro narrativo, senza particolari sussulti in merito a level design e combattimenti significativi.
E’ sempre un piacere tornarci, come oasi di pace non conflittuale.
TOY STORY: qui si tratta del gioco al suo massimo. Questa ambientazione è assolutamente propedeutica alla comprensione della grandezza di
Kingdom Hearts 3 come esperienza a tutto tondo. L’avvio è accogliente, con al camera di Andy in qualità di spazio chiuso in cui acclimatarsi senza traumi. La percorribilità delle pareti, unità alla ridotta scala dei personaggi rispetto agli oggetti, aiutano il giocatore a comprendere come muoversi e come ragionare all’interno del titolo. La successiva uscita nel giardino è quasi frastornante, ma
KH3 non è
GTA e l’orizzonte non è una possibilità ma solo un cambiamento.
L’arrivo al centro commerciale è straniante. Perché non è possibile che con quel dettaglio e con quella estensione sia tutto esplorabile e visitabile. E invece sì. E invece è di più. Un contesto generale all’interno del quale si aprono tanti micromondi tematici perfettamente illustrati e pieni di sorprese e con level design di qualità. La possibilità di utilizzare i mech per combattere sostanzia il gameplay con scampoli di sparatutto in soggettiva divertente e sfidante, così come lo è l’apposito arcade
Verum Rex, da cui si potrebbe estrarre un videogioco dedicato.
Il resto è tutto da provare e da vivere, con una menzione particolare per il parco di divertimento dei bambini con la vasca con le palline e il castello-labirinto. Lì in giocatore è sottoposto a una regressione fanciullesca senza possibilità di appello, con la bocca spalancata dalla meraviglia, alla stregua del mondo puerile che si vuole celebrare.
Eccezionale, poetico, dolcemente fanciullesco.
IL REGNO DI CORONA: si viene accolti da una musica piuttosto morbida e accogliente e l’ambientazione bucolica dispone alla serenità. La difficile identificazione dei confini dell’area induce a pensare che il terreno esplorabile sia molto più vasto di quello che in realtà sia, ma non è un grosso problema. Rispetto ai regni fin qui incontrati la mappatura è decisamente più orizzontale e piana, sembra quasi di trovarsi nell’open world di un classico gioco di ruolo all’occidentale, con cielo glauco, erba verdissima, roccia cromaticamente coerente e la promessa di grandi avventure. Vastissimo poi, per quanto la liricità del tutto sia una po’ rovinata da un accenno di aliasing che corrompe le colline dei fiori. E una Rapunzel deliziosa il cui sguardo nuovo e fresco sul mondo che si schiude alla sua conoscenza offre siparietti di amena innocenza, come il bagno nel laghetto e il prato pieno di denti di leone.
L’ingresso nel Regno è stato traumatizzante, in positivo. Sembrava quasi una piccola Novigrad. Ma è tutto molto più semplice ma ugualmente piacevole, tra bagni nel porto e la dimensione medieval-danzante. Forse il regno in cui il cuore si apre con più facilità.