Io l’ho finito un paio di mesi fa, finito nel senso di esaurimento di ogni tipo di sfida e contenuto, con circa 700 korogu. Non ho scaricato i contenuti aggiuntivi, per adesso.
Credo che abbiate detto tutto quello che c’era da dire, Nintendo, con la saggezza dell’ultima mossa, prende il concetto, occidentale ed astratto, di open world e lo adatta al suo capolavoro. Questo gioco non è tanto significativo per i suoi aspetti ludici (scomponibili con poco, criticabili facilmente e perfettibili alquanto, alcuni di voi hanno mosso critiche argomentate), quanto, piuttosto, per il servizio che rende al guadagno fondamentale delle tecnologia moderna, il già citato “open world”.
In realtà, nella sua presunta inconsistenza ludica, la categoria denominata “open world” ha la sua grammatica nell’allestire lo spazio – gioco in modo coerentemente coeso Ecco, la causa della sua fraintendibilità sta nella difficoltà nel concepire, realizzare e porre in atto un contesto il cui sfruttamento sia del tutto legato alla capacità di approfondimento del giocatore.
“Seguire la main” e disinteressarsi del resto significa non aver compreso del tutto i principi cardine di questo genere di esperienza. Vale a dire una ragnatela di attività più o meno sviluppate che non si devono distinguersi per qualità adamantina della singola funzione, piuttosto si tratta di armonizzare esigenze e direttive diverse (e spesso inconciliabili) che trovano nel quadro finale una ragion d’essere. Sfruttando il più possibile la costruzione di spazi preposti allo scopo e costruiti in modo credibile e verosimile.
“Si cammina e non si fa niente...”
No, parlerei più che altro di poca propensione a colmare quegli spazi con il senso di disvelamento e scoperta che da sempre rappresentano motivazioni più che valide alla permanenza all’interno di un contesto ludico. Fermo restando che l’offerta sia di qualità, anche in questo preciso campo esistono paurose fluttuazioni di senso.
“Open World” come comunicazione di una visione in cui la percorrenza è parte integrante del gameplay, per cui non esiste inutilità nel farlo. Luogo in cui il punto di vista e la curiosità del visitatore riescono a creare infinite immagini di luce, tempo atmosferico, tempo cronologico, stasi, movimento e luoghi di intima. Se un open world è ben programmato ed illustrato nel suo darsi, il primo effetto che si ottiene è la personalizzazione dell’esperienza: nessuno vedrà le stesse albe e lo stesso vale per i tramonti; pioggia e vento colgono il giocatore in luoghi diversi e ne determinano l’umore rispetto a quello che sta facendo; l’intelligenza con cui il mondo è costruito sfugge alla pensabilità della struttura in sé, per cui tutto scorre nell’imprevedibilità randomica che ha una sola meccanica, l’esperienza personale.
Giocare con le sue interazioni, saggiarne fisica e coerenza interna, risalire all’idea di bellezza di chi quel mondo l’ha pensato e allestito.
Zelda BotW è dotato di una meccanica circolare e ricorsiva. Abbiamo un mondo da esplorare, caratterizzato da una piccola, forse apparentemente innocua variazione di fondo, vale a dire poter scalare qualsiasi oggetto affrontando la relativa superficie, con tutte le conseguenze del caso. Poi abbiamo una struttura apparentemente aperta, un nuovo sistema di combattimento, un’enigmistica ambientale saggiamente distribuita tra attività collaterali e frammentazione del modello di “tempio” a cui la saga ci aveva abituati fin qui, collezionabili sotto forma di pruderie investigative e l’orizzonte come continuo assillo del giocatore.
Partendo dalla semplicità di questi elementi si giunge alla costruzione di varie combinazioni più complesse. La grandiosità di Zelda BotW consiste proprio in questo, una serie di fattori che agiscono simultaneamente e collettivamente, in un modo così complesso che risulta arduo esaminare singolarmente in processi senza tener conto di tutte le possibili implicazioni.
Le attività si sostentano e si alimentano chiaramente e, a volte, anche invisibilmente, prima che la consapevolezza del giocatore riesca a determinare i processi di causa ed effetto. Ci si può lamentare del fattore di usura delle armi ma come allontanare in qualche modo la piattezza che si viene a determinare in questo genere di giochi con la banale ricorsa all’arma più potente? E come costringere il giocatore a procurarsene di nuove e migliori per affrontare i momenti apicali del gioco? Come integrare la risoluzione dei sacrari con il desiderio di esplorare zone della mappa che richiedono opportune dotazioni di vitalità e stamina? E gli esempi sarebbero numerosi. Si tratta quindi di un processo dinamico che riguarda due o più elementi che sono costantemente coinvolti a più livelli al proprio interno, mentre emettono e recepiscono informazioni esperenziali al giocatore. Questi, in in funzione delle proprie strutture e esperienze personali, crea un viaggio fortemente caratterizzato dall’intra-soggettività, realizzando in modo compiuto il modello vincente di open world, un contesto scolpito dall’incontro con una materia preesistente (il gioco) e le suggestioni create da chi quel gioco lo deve vivere.
Nintendo non ha creato questo genere di gioco, esiste da svariato tempo, Però Nintendo è riuscita là dove molti hanno fallito, la creazione di un mondo coerentemente teso alla convergenza di senso e non solo un affastellamento di attività più o meno ricreative atte ad allungare il senso dell’esperienza.
Ecco il cuore ricreativo del vituperato open world, quello pensato bene, quello che si regge autonomamente, ossia l’interdipendenza, ogni aspetto è pensato per riflettersi sugli altri e sul sistema nella sua totalità, modificandone in qualche modo lo stato. Secondo me sbagliano tutti coloro che si avvicinano a questo genere di esperienza economizzando sforzi e attenzione, se il gioco è ben allestito rimanere al suo interno è il solo modo per capirne le segrete simmetrie.
Vale per Zelda, vale per Horizon, vale The Witcher 3, FFXV, non si entra in questi mondi da turista frettoloso ma da giocatore consapevole.
La comunicazione interna di questo meraviglioso mondo consiste in processi di scambio di applicazione mentale con risorse a carattere deambulativo (cuori ed energia), di materiali da reperire per vincere l’ostilità del contesto e poter accedere a zone della mappa inizialmente precluse, informazioni (mai troppo ingombranti per fortuna) che costituiscono un mezzo mediante il quale ciò che acquisisce il giocatore come conoscenza possa influenzarne a un livello diverso e più consapevole. C’è un passaggio dall’umano al sistema (e viceversa) che ha del clamoroso all’interno del contesto videoludico e una pietra miliare con cui la produzione futura dovrà fare i conti. Zelda BotW porta sul piano procedurale videoludico l’idea del pensare, del rappresentarsi, dell’identificarsi, del sentire i vissuti presenti e passati, della coscienza interna come strumento di percezione. Il giocatore è chiamato a definirsi come specifico micromondo immerso in un meso-mondo, fatto di regole, aspettative e cornici di senso, che possono essere liberamente concordate dalle parti o derivare dai contesti emotivi e spirituali preesistenti. E’ un’opera interiorizzante.
Tutto questo anche e soprattutto rispetto al tema portante dell’esperienza, della narrazione, del senso di Zelda BotW, vale a dire la morte. Nintendo non è nuova a questa tipologia indiretta di concettualizzazione, era presente anche nelle spire di Super Mario Galaxy e qui ritorna prepotentemente. Hyrule non è solo quel luogo incantevole, baciato da lieve bellezza. E’ un posto fondamentalmente immoto, memore delle battaglie che lì si sono consumate e impaziente di consegnare questo dolore all’obnubilescenza del tempo. Il movimento, quel camminare, quell’incedere attraverso l’immobilità di un sfondo è narrazione in sé. Come si può sostenere che il movimento in Zelda sia vuoto, mancanza di senso, privazione di scopo? Non c’è nulla di più necessario di un mondo da attraversare per ricostruirne la storia di dolore che lo funesta, così pieno di significazione resa dalle cicatrici della terra, dalla frusta del vento, dalla notte silente. La storia di Zelda BotW inizia dalla sua fine e finisce con un nuovo inizio, ma c’è la ferma consapevolezza che gli ingranaggi di questo processo siano accettazione, volontà, sacrificio e morte. I vari protagonisti della vicenda, più o meno consci di questa infinita palingenesi, determinano il viatico.
La speranza nel ruolo dell’eroe è una materia di cui è intriso il mondo di Zelda BotW . Sperare è quella tensione verso qualcosa che è percepito come bene, verso il compimento di ciò che è necessario in quel mondo. La speranza è prerogativa umana legata alla vita e al rivolgersi al futuro, un futuro che nel mondo di Hyrule coincide con il passato, per cui tutto è scritto e tutto deve compiersi. Se la speranza è legata a chi la rende possibile, per questo le speranze umane sono insicure poiché legate all’accettazione dell’ineludibile. Come le leggi dell'universo, che sono la base di ogni etica.
I quattro campioni di Hyrule sono proprio la certificazione di questo sotto-testo narrativo. Sono trapassati a causa del dovere ma è proprio dal dovere che traggono la forza per contrastare il volgere del mondo al male.La speranza sorge dentro la prova, si rafforza in essa, per cui la speranza si accosta alla virtù della pazienza dell’attesa, così che sperare già è contribuire a superare la prova. Link è davvero un collegamento, alla memoria del mondo, alla ritrovata consapevolezza di sé, all’idea che qualcosa che di nuovo può divenire grazie alla ricompilazione di vecchie idee. Egli, incarnandosi nuovamente, assume la condizione materiale in tutta la sua precarietà, purtuttavia non cedendo alla tentazione della prova, fino all’esito che tutti conosciamo. Il villaggio Daccapo è una splendida esemplificazione della nuova vita presente in questo arco storico di Hyrule. Distruggere per edificare, morire per risorgere, in un magnifico divenire.
Ecco, per questi motivi Zelda BotW è necessario, la storia del videogioco, a questo giro, passa da qui.