Visto.
Questa volta mi permetto di postare la recensione di Mauro Bedeschi, che mi ha letteralmente tolto le parole di bocca per descrivere questo film.
La fonte della recensione è Everyeye.it.
Cosa succede a chi si prende la briga, a chi commette un imperdonabile atto di tracotanza che conduce alla rivoluzione, se non addirittura alla morte (con conseguente rinascita) di un mezzo di comunicazione estremamente popolare e amato come il cinema? Qual è lo scotto da pagare quando si firma una delle saghe più importanti e seminali della settima arte? Capita che ogni nuova opera di questo ipotetico peccatore verrà attesa a fucili spianati tanto dai critici che magari, loro malgrado, sono stati costretti a riconoscere l’importanza di quanto fatto fino a quel momento con uno sgradevole sorriso di circostanza stampato in volto, quanto dal pubblico, entità potenzialmente sadica, capace di godere incommensurabilmente quando i grandi si esibiscono in rutilanti capitomboli.
Lo scenario fin qua abbozzato corrisponde, a grandi linee, a quanto vissuto dai fratelli Andy e Larry Wachowski, i padri del più grande stravolgimento tecnico, narrativo ed estetico del cinema di fine ed inizio millennio, secondo, forse, solo a quello di un certo George Lucas, anche se mai come in questo caso il forse e davvero d’obbligo.
Tratto dall’omonimo anime nato negli anni sessanta per mano di Tatuo Yoshida, questo Speed Racer è stato fortemente voluto dal produttore Joel Silver, tycoon di Hollywood che ha dato origine ad alcuni dei migliori action movie di sempre come 48 ore, Predator, Die Hard e Arma Letale. Legato ai fratelli Wachowski da più di dieci anni di proficua attività, ha trovato nei padri di Matrix la scelta più ovvia per dirigere l’adattamento di questo cartoon nipponico molto amato negli States, la terra dei motori per eccellenza.
Il loro Speed Racer è stato accolto in maniera molto poco lusinghiera dalla critica d’oltreoceano, che si è fiondata sulla pellicola con la stessa veemenza di un feroce predatore, di un famelico carnivoro alla caccia di un’inerme gazzella. L’etichetta più comune fra quelle adoperate è stata quella di "pop extravaganza capace di destare solo dei gran mal di testa negli spettatori" a causa della sua regia che ridefinisce il concetto stesso dell’aggettivo "frenetica", condita da colori lisergici e da una storia decisamente più "family oriented" rispetto a quella di Matrix.
Ma è davvero così?
Per scoprirlo non vi resta che seguirci a bordo della Mach 5.
Go Go Go Mach5!
Racing is everything.
Speed Racer (Emile Hirsch) è cresciuto a pane e spinterogeni nella casa/officina di famiglia, dove le macchine e i motori sono l’autentica religione di questa self made family del mondo automobilistico. Ma su Speed e la sua famiglia incombe, tragico e opprimente, il ricordo della morte del figlio maggiore di Pops (John Goodman) e Mom Racer (Susan Sarandon), Rex Racer (Scott Porter), provetto pilota scomparso in maniera poco chiara in un incidente avvenuto durante il pericolosissimo rally intercontinentale di Casa Cristo. Per il giovane Speed ogni gara diviene un vero e proprio atto d’amore nei confronti dell’idolatrato fratello. Il suo talento è difficilmente quantificabile, misurabile, ma forse, se non avesse alle spalle l’amore della sua famiglia, della sua fidanzata/assistente Trixie (una Christina Ricci in un’insolita veste Kawaii), del suo vulcanico fratellino (Paulie Litt) e del suo inseparabile scimpanzè Chim Chim, a nulla servirebbe il suo esprit di genio del Grand Prix. E’ la coesione del gruppo a fare l’autentico distinguo del caso, poiché il loro è un rapporto retto non da sterili logiche monetarie, di profitto, ma dalla passione, dalla dedizione all’arte dei motori. Con un bagaglio di simili, saldi principi, diventa inevitabile per Speed rifiutare la lauta offerta di Mr. Royalton (Roger Allam), corrotto boss delle Royalton Industries, per il quale i membri della propria scuderia di bolidi sono solo degli ingranaggi di un macchinario ben più grande chiamato mercato: la vittoria di questo o quel pilota serve solo a far si che la nuova soluzione meccanica adottata nelle vetture Royalton si affermi commercialmente e ogni gran premio viene deciso a suon di bustarelle perché ciò che importa davvero non è alzare la coppa a fine gara, ma il prezzo delle azioni in borsa.
Speed decide quindi di continuare a seguire le orme del suo adorato fratello, morto, forse, proprio perché aveva iniziato a combattere questo abbietto meccanismo decidendo di cambiare le cose. Si allea quindi con il pilota Taejo Togokhan (la pop star koreana Rain) e il misterioso guidatore membro della commissione contro le frodi sportive Racer X (Matthew Fox di Lost) riuscendo ad arrivare al Grand Prix finale della lega automobilistica, teatro dello scontro finale fra il novello Davide Speed Racer e il malvagio Golia Mr. Royalton.
Nemo propheta in patria.
Non è difficile capire perché questo nuovo lavoro dei fratelli terribili sia stato così vituperato nella terra dei cowboy. La pellicola, melius, le sequenze di bit che scorrono sullo schermo prestano fin dall’inizio il fianco a facili critiche per via della mise en scène dichiaratamente kitsch e retrò e per la recitazione stilizzata degli attori, la cui monodimensionalità recitativa non fa altro che riprendere le semplificazioni tematiche degli anime di quarant’anni fa, in cui i lati del bene e del male erano distinti in modo netto e senza zone d’ombra.
Per analizzare un film come Speed Racer, bisogna partire dal presupposto che il cinema classicamente inteso è ormai morto da quando la rivoluzione digitale ha sconvolto ogni ambito della creatività umana. Speed Racer è la chiave di volta per capire la direzione intrapresa dalla settima arte, come, se non più, del sorprendente 300 di Zack Snyder.
Se Marshall McLuhan, il padre dei media studies, fosse ancora vivo, probabilmente avrebbe dedicato un gustoso saggio ad un lavoro che, per utilizzare direttamente le sue parole, avrebbe definito come "non lineare, non euclideo". Il film di Andy e Larry Wachowski esercita in continuo multitasking, rompe fin dalla prima inquadratura qualsiasi rapporto dimensionale o temporale in un florilegio di immagini optical che, ben lungi dall’essere fini a se stesse, erigono un monumento alla rimediazione di canoni narrativi presi da mezzi di comunicazione differenti. Se già Matrix, al di là dei riferimenti più o meno oscuri ai simulacri di Jean Baudrillard, ai viaggi attraverso lo specchio di Lewis Carroll, alla filosofia greca, al cyberpunk di Masamune Shirow e alla virtual camera di Super Mario 64, aveva scritto il definitivo epitaffio al cinema del 1900 segnandone al contempo la morte e la rinascita, Speed Racer è, in attesa del perennemente rimandato Avatar di James Cameron, il primo, autentico passo di un cinema che pur non avendo perso quello che a conti fatti rimane la matrice capace di distinguerlo dagli altri mezzi di comunicazione visuale, ovvero la grammatica del montaggio, riesce a fluidificare la narrazione in un continuum non sequenziale che pone il film in una terra di confine fra videogioco, anime e flusso ininterrotto di creatività pura. Così come, all’inizio del film, le incomprensibili parole del compito in classe affrontato dal giovane Speed si confondono fino a diventar, prima, un indistinto "bla bla bla" scritto sul foglio e poi un emblematico "tutti i piloti al loro posto", la dimensione narrativa, visiva e cronologica di Speed Racer non fa dei distinguo fra il prima e il dopo, fra il primo piano e la profondità di campo. Tutto è fuso insieme e a fare da paletto agli stacchi cronologici, ai flashback e ai flashforward, non sono tagli di montaggio netti, quanto delle figure poste in primo piano, ad esempio i volti degli speaker delle gare, alle cui spalle corrono, letteralmente, le immagini delle gare in cui le evoluzioni degli scontri di car-fu, versione automobilistica del kung fu di Neo, rendono il tutto piuttosto simile a una demo di F-Zero o Mario Kart in cui la mancanza d’interattività non si fa sentire più di tanto poiché, a conti fatti, stiamo pur sempre seguendo una storia. Quel processo di virtualizzazione della regia iniziato con il bullet time di Matrix, trova qui il suo zenit assoluto, ma, c’è da scommeterci, non saranno molti quelli che riusciranno a carpire la rivoluzione a tutto tondo di un film dove gli attori si muovono sui fondali bidimensionali di un anime vecchia maniera o di un platform game in 2d in cui la camera passa, senza soluzione di continuità, dal dettaglio di un primo piano alla panoramica di un circuito e viceversa.
Come accennato in precedenza, la recitazione del cast è volutamente priva di sfaccettature, poiché la dimensione cui fanno riferimento i fratelli Wachowski e quella di un anime ancora privo delle riflessioni cupe e mature delle produzioni nipponiche attuali. Ciò nonostante, tutti fanno il loro dovere, con Emile Hirsch che prenota il biglietto a divo del futuro per il modo in cui riesce a passare con nonchalance dai turbamenti causati dalla visione del notevole corpo di Elisha Cuthbert (La Ragazza della Porta Accanto), alla tormentata storia di Chris McCandless (Into the Wild) fino ad arrivare, appunto, a questo Speed Racer.
Nonostante l’approccio più naif alla storia, i momenti scanzonati non mancano, contrariamente a quanto accadeva in Matrix in cui l’autoironia era davvero del tutto assente, il tema preferito dal duo di registi, quello del singolo, della monade che combatte uno status quo in cui non si riconosce, è presente in maniera marcata, così come negli altri lavori diretti, sceneggiati e prodotti dagli ex "fumettari".
Optical Cinema.
In aggiunta al mastodontico lavoro di regia orchestrato dai fratelli Wachowski e dal loro inseparabile supervisore agli effetti speciali John Gaeta, una medaglia al merito va a tutti gli altri artisti che hanno contribuito a rendere così speciale Speed Racer. La fotografia di David Tattersall è un florilegio di colori acidi e glitter dove le gradazioni di colore sono assenti proprio per donare quell’effetto di colorazione netta tipica degli anime televisivi, mentre le scenografie di Owen Patterson riprendono lo stile della rassicurante America del boom quando si tratta di raffigurare la placida vita domestica della famiglia Racer, in netto contrasto con le laocoontiche configurazioni dei tracciati, uscite fuori, probabilmente, da un impazzito editor di piste di un frenetico racing game.
La colonna sonora di Michael Giacchino, già artefice delle sonorità d’antàn de Gli Incredibili di Brad Bird, riprende il medesimo incedere old style, creando una gradevole dissonanza fra la modernità della narrazione e il look futuristico-retrò del film.