Questo l'articolo incriminato:
San Petronio e Mr. Smith
dal libro di S. Allievi, Islam italiano. Viaggio nella seconda religione del paese, Einaudi, 2003
Cominciamo dal simbolo per eccellenza della Bologna cristiana: la basilica di San Petronio. Per la precisione una sua cappella laterale, la quarta a sinistra: la Cappella Bolognini.
Lì, dal 1410, c’è anche Maometto, anzi, Machomet: raffigurato in un giudizio universale di ispirazione dantesca dal pittore Giovanni di Pietro Falloppi, o Giovanni da Modena. All’inferno, ovviamente, dove del resto lo piazzò Dante, nella nona bolgia, tra i “seminator di scandalo e di scisma”, come racconta il canto XXVIII, descrivendo la sua pena con una certa crudezza di linguaggio:
“rotto dal mento infin dove si trulla:
tra le gambe pendevan le minugia;
la corata pareva e’l tristo sacco
che merda fa di quel che si trangugia.
Mentre che tutto in lui veder m’attacco,
guardommi, e con le man s’aperse il petto
dicendo: «Or vedi com’io mi dilacco!
vedi come storpiato è Mäometto!
Dinanzi a me sen va piangendo Alì,
fesso nel volto dal mento al ciuffetto»”.
(Dante fu più gentile con altri sapienti musulmani, che con coraggio, per l’epoca, collocò invece altrove, come «Averoìs che ‘l gran comento feo», nel canto IV: dell’inferno, è ben vero, ma nel Limbo dei sapienti, nel quale, oltre ai profeti biblici e ai grandi filosofi greci troviamo, tanto per restare in tema, anche Avicenna e il Saladino. E potremmo aggiungere che forse il «ghibellin fuggiasco» fu debitore, per la sua Divina Commedia, alla leggenda del viaggio notturno di Muhammad da Gerusalemme, e ad elementi di altri testi arabi già presenti nella letteratura cristiana, come sostiene la nota tesi di Miguel Asín Palacios, esposta nel suo L’escatologia islamica nella Divina Commedia ormai già un’ottantina di anni fa).
Il Machomet in questione, quello di San Petronio, è nudo, di schiena, con barba bianca e fattezze orientali. E se ne sta lì, tranquillo e fondamentalmente impercepito, più o meno da sei secoli. Solo che oggi, che tutto è buono per fare polemica, se ne è accorto un signore di nome Adel Smith, cittadino italiano convertito all’islam, feroce polemista anticristiano, come sono talvolta i convertiti, quando devono risolvere in qualche modo i loro conflitti di identità.
Lui vive a Ofena, un tranquillo paesino arroccato sulle montagne dell’Aquila. Ma gira come un tarantolato a promuovere il suo partitino, e ha fatto di Bologna il suo Piave, la sua linea di resistenza.
Parliamone, di costui: anima in pena, in perenne affannosa ricerca di qualche forma di visibilità mediatica. Da sempre alla ricerca di nemici cristiani – o perfidi giudei – da sfidare. Oltre un decennio fa si allenava con ignari missionari o studiosi cattolici, invitati a quelli che credevano essere incontri di dialogo interreligioso: e davanti a una platea di musulmani di bocca buona, in quel di Roma, si dava da fare per assurgere alla fama di defensor fidei – anzi, più che altro, di accusatore di quella altrui – ammannendo il consueto e peggior repertorio che una polemica anticristiana di secoli e un’apologetica islamica facile facile ha saputo produrre, aggiungendovi di suo, per parafrasare qualcuno che dopo tutto fa il paio con lui, una rabbia cieca e un orgoglio debordante, oltre che un ego di dimensioni assolutamente ragguardevoli. Oggi ha fiutato l’aria, tanto da fondare di recente anche un partito, l’Unione Musulmani d’Italia, con alcuni figuri secondari dell’estrema destra convertita all’islam (come Abdul Haqq Zucchi, quello del dirham, di cui abbiamo parlato in quel di Roma).
E’ interessante notare quanto, nella perversione dei meccanismi mediatici, uno così sia proprio il musulmano che ci voleva. Ho davanti a me il Giornale del 27 maggio 2002: titola a tutta pagina, taglio alto, come notizia principale: Nasce il partito islamico italiano. Sottotitolo: Si presenterà alle prossime elezioni, vuol applicare il Corano in Italia: «Siamo già in 5mila». “Il Giornale” è un non giornale, si dirà. Ed è vero: infatti è l’unico quotidiano a sparare questa non notizia in prima pagina, su otto colonne, e a dedicargli tutto questo spazio. Ma molti ricordano anche la presenza di Smith nel salotto di Bruno Vespa, a sparare a zero sul crocifisso. E quando Massimo Cacciari ha chiesto: «Ma Vespa, dove l’ha pescato questo qui?», il giornalista, che pure sapeva con chi aveva a che fare, e quanto (poco) rappresentasse l’islam italiano, ha detto: «Questo signore rappresenta l’Unione Musulmani d’Italia!». Tre soci fondatori o giù di lì, tra accoliti e mogli rispettive, tutti presenti in studio… Più che soci, servi sciocchi, a leggere quanto Abdul Haqq riesce a scrivere nella prefazione a un libello di Smith di risposta alla Fallaci (libro inutile, insolente e ridondante come il suo autore, a cui non manca, va detto, il senso della propria importanza, tanto da aver scritto in passato anche al Papa, ingiungendogli di convertirsi all’islam): «È come al solito lui che adempie a quello che è un preciso dovere di ogni musulmano, quello di difendere la propria religione, la dignità dell’Islam, a dimostrazione di essere l’unico vero leader di tutti i musulmani d’Italia»; che loro lo vogliano oppure no. Del resto, anche Smith non scherza, nell’autopresentazione contenuta nel risvolto di copertina, tanto autocondiscendente e priva di senso delle proporzioni da suscitare un’allegra ilarità: «ha approfondito, fin dalla giovane età, lo studio del testo biblico e del cristianesimo, giungendo a un livello di conoscenza critica oggi difficilmente eguagliabile»; e il suo – essendo Smith tutto preso da se stesso e dunque del tutto ignaro di quanto succede altrove – sarebbe «il primo ed unico partito religioso-politico musulmano in Europa». E così anche il piccolo Ceausescu di provincia dell’islam italiano è sistemato al posto che gli spetta di diritto: il più alto, naturalmente. E d’Europa…
Adel Smith rimane quello che è: un professionista della provocazione, capace di vivere solo sulla immondizia pseudo-culturale che genera, e la polemica che da questa si ingenera, e che gli fa solo un favore, dandogli quella fatua visibilità mediatica di cui ha bisogno come dell’ossigeno, per esistere. E naturalmente i giornali, e le televisioni, ci cadono. O ne sono complici. Come con la sua richiesta (lui la chiama formale diffida) ai ministeri della Sanità, della Pubblica istruzione, degli Interni, con annessa minaccia di trascinarli in tribunale, se non toglieranno tutti i crocefissi dalle scuole e altri luoghi pubblici: riportata un po’ da tutti. E altre amenità: come le botte in diretta a Teleserenissima o gli squallidi monologhi-insulto a TeleLombardia, in cui ripete il suo tristo repertorio. E il regalo che gli hanno fatto gli idioti squadristi di Forza Nuova, pestandolo in diretta, sul canale veronese TeleNuovo. La morale è triste: sono i media, specie questa triste trash tv disposta a tutto pur di guadagnarsi una piccola fetta di audience, ad aver inventato Adel Smith. Verrebbe da costringere i giornalisti che l’anno fatto, da Vespa in giù, a compensare almeno un poco la società – e, come in America, costringerli per qualche mese ad un lavoro di utilità sociale: che so, raccogliere spazzatura, invece di continuare a produrne. Purtroppo, invece, le cose vanno diversamente. Smith è un pallone gonfiato dai media. E, come una mongolfiera ormai lanciata, continuerà a volare per l’aere, fino a quando avrà gas a sostenerlo. E ne avrà, perché glielo danno i media stessi. E, volando, continuerà a far danni: il veleno che lui, attraverso i palcoscenici che gli hanno offerto, e i mediocri che gli hanno risposto, hanno iniettato nel corpo sociale, ormai ha già inquinato il quotidiano di molti, soprattutto musulmani, che si vedono appiattiti sull’icona da Smith rappresentata. Ovvio che ci venga da richiamare il monito di Karl Popper: la tv, i media, sono potenti – bisogna saperli usare. Sarebbe dunque giusto, doveroso, costringere gli operatori dei media ad avere una specifica patente, come per i mezzi pesanti. E se chiunque guida ha il dovere di imparare il codice della strada, il minimo che si può pretendere è che chi guida i tank dell’informazione sia obbligato ad apprendere il codice deontologico, attraverso lezioni, interrogazioni ed esami.
L’altra parte di responsabilità, naturalmente, è di Smith: così disinteressato al destino dei musulmani che dice di voler rappresentare, da far finta di ignorare che, ad ogni aumento dello share che la sua presenza sul piccolo schermo contribuisce a produrre, diminuisce contestualmente, nella stessa misura, l’indice di gradimento del prodotto che dice di voler vendere – il rating, per così dire, dell’islam.
Ma lui ci è abituato: il disprezzo per gli altri è l’altra faccia dell’apprezzamento quasi comicamente enorme che ha di sé. Lui, il crocefisso, lo chiama «macabra raffigurazione di cadavere in miniatura», e lo paragona a «una ghigliottina in miniatura con il decapitato infilato». Non solo offensivo e volgare, ma privo del tutto di pietas: per essere un sé-dicente religioso non c’è male.
La battaglia intorno o contro al crocifisso non è nuova, e non l’hanno inventata i musulmani. Certa propaganda ateistica, comunista e anarchica, ma anche, con toni assai più pacati, altre minoranze religiose, l’hanno sollevata in passato. Ed è un tema su cui si potrebbe, volendo, anche discutere. Se discutere si volesse. Lo Smith è riuscito invece, come è nella sua vis profonda, solo a offendere: inclusi non pochi musulmani, anch’essi urtati e offesi dal disprezzo trasudante dalle parole e persino dalla mimica di Smith, pronunciate nei confronti di uno che in fin dei conti è anche un amato profeta dell’islam, conosciuto dal Corano come Isa ibn Maryam, Gesù figlio di Maria, di nascita verginale, anche se i musulmani non credono sia stato crocifisso. E nessun musulmano degno di questo nome, tanto meno un responsabile religioso che ha il modesto programma di instaurare la shari’a nel nostro paese, offenderebbe scientemente le credenze dei cristiani, che il Corano chiama ahl al-kitab, genti del Libro, e i loro simboli, che la dottrina e la tradizione islamica hanno sempre rispettato, anche se altrettanto non si può dire oggi, nella pratica di alcuni paesi e gruppi.
A proposito: sul crocifisso le parole più belle le ho sentite pronunciare dal presidente dei giovani musulmani italiani, Abdallah Kabakebbji, a un convegno: “Macché contrari! Se servisse a far sì che i nostri compagni di scuola e di università fossero più cristiani, più rispettosi dei dettami della religione, saremmo solo contenti…”
E da Vespa è toccato a Cacciari difenderne l’umanità profonda e l’insegnamento: né il giornalista che si dice, credo, cattolico, troppo gongolante per il proprio piccolo scoop, né peraltro i preti ospiti in studio, evidentemente non abituati ad un contraddittorio su questi livelli, hanno saputo farlo.
Bologna, tuttavia, non gli ha portato fortuna, allo Smith. Nonostante la eco della vicenda avesse raggiunto nel frattempo anche il Times, e accorate richieste di informazioni provenissero al sottoscritto anche dalla BBC. Come prevedibile, la minaccia di portare migliaia di fratelli a manifestare a Bologna si è risolta con una buffonata, più o meno come i cinquemila iscritti dichiarati al suo partito fin dal suo lancio, a colpi di comunicati stampa: prima ancora che si sapesse che il partito esisteva.
Tuttavia, siamo consapevoli che con personaggi di tal fatta bisognerà comunque fare i conti. Se ne parlerà ancora. Non solo perché esistono. Ma perché, in questa fase di turbolento assestamento e di solo iniziale stabilizzazione e istituzionalizzazione dell’islam italiano – e molto grazie al ruolo dei media, che non a caso invitano lui, e non altri interlocutori musulmani: se non ci fosse stato, avrebbero dovuto inventarlo… – possono trovare i loro spazi, i loro piccoli nuclei di seguaci, ed esercitare così il loro piccolo ruolo di piccoli Cesari: in grado di fare, se l’occasione si presenta, anche non piccoli danni.