Oggi lezione di storia.
TEPEPAStra-stra-stra cult di Giulio Petroni (1968), musicato da Ennio Morricone. Da dove cominciare? Già l’idea di mettere assieme Tomas Milian, Orson Welles e John Steiner dovrebbe stimolare l’eccitazione di ogni cinefilo che si rispetti, se poi la regia è affidata al maledettissimo Petroni che, povero lui, si vide il film stuprato, tagliato e censurato…beh, il recupero è assolutamente necessario, magari nella confezione extralusso che comprende l’integrale di 136 minuti con la colonna sonora originale a parte. Milian (qui inarrivabile, sempre sudato, ciarliero e con il sigaro in bocca) è Tepepa, un peone rivoluzionario messicano sulle cui tracce si trovano il colonnello Cascorro (Welles, ancora più sudato di Milian) e il dottore inglese Henry Price (John Steiner, che con quella faccia fa lo studioso di Lombroso….) che vuole vendicare la donna di cui era innamorato, morta per colpa di Tepepa. Film politico, violento ma di straordinaria umanità. Scene memorabili a iosa, a cominciare dall’agguato dei peones nella gola, con tanto di capre esplosive. Finale shakespeariano, morti a raffica e bambini che diventano rivoluzionari. Morricone al suo meglio. Film maledetto in ogni suo comparto, ma essenziale per riscoprire l’anima dark del genere (argh) “spaghetti-western” (mai termine fu così riduttivo).
L’ULTIMO UOMO SULLA TERRAVada come vada, I am Legend con Will Smith potrà anche essere il più spettacolare e costoso tra i blockbuster ma mai potrà eguagliare la scarna essenzialità della prima riduzione cinematografica (nonché la più fedele) del capolavoro di Matheson. Girato su un altro pianeta (ovvero l’Eur d’estate con quattro soldi), L’ultimo uomo sulla Terra vede assoluto protagonista Vicent Price, uno dei migliori attori della storia del cinema, sublime incarnazione dello scienziato che tra un flashback ed un attacco dei vampiri (due comparse truccate alla bell’e meglio) resiste con combattuta rassegnazione al destino ineluttabile. Ubaldo Ragona salta giustamente a piè pari le dissertazioni e gli esperimenti dello scienziato e si concentra sull’uomo e sui suoi ricordi. Piuttosto fedele al testo originale (molto più di The Omega Man del 71’), il film è povero, ma bello e l’ambientazione romana lo rende effettivamente ancora più particolare di quanto già gli permetta di essere la sceneggiatura. Da recuperare (magari nell’ottima edizione Rhv).
PUNISHMENT PARKE qui signori, giù il cappello. Capolavoro è una parola che preferisco non usare ma che ho proprio sulla punta della lingua. Diretto dal documentarista Peter Watkins è uno dei film più violenti, sardonici, antiamericani mai prodotti, uno inno alla non violenza assoluto (da erigere a bandiera del pacifismo assieme a Orizzonti di Gloria e pochi altri titoli) e, ovviamente, uno dei film più censurati della storia del cinema. L’autore immagina che in America (paese nel quale vige la legge marziale ed il Presidente (Nixon) prende le decisioni ignorando le indicazioni del Senato) un gruppo di obiettori di coscienza, dal look vagamente frikketone, condannato dopo un processo-farsa, venga lasciato libero di attraversare il deserto (ovvero il Punishment Park del titolo) senza acqua nè viveri o andare in galera: se il gruppo riuscirà ad arrivare in fondo, avrà salva la vita (see…). La fuga è ripresa in diretta tv e la polizia ha l’ordine di cecchinare e colpire i bersagli senza farsi troppi problemi. Regia asciutta, messa in scena essenziale. Alle sequenze nel deserto, si alternano deliranti processi sommari e interviste ai malcapitati e ai carnefici in pieno stile mockumentary. Watkins usa ora fioretto ora la sciabola, condannando il terrorismo di Stato e l’uso indiscriminato della violenza con mero scopo repressivo. Atrocemente attuale, un pugno nello stomaco piazzato proprio là dove fa male.