Once upon a time in Anatolia: Quanto è sottile il confine tra mattone da Festival e opera d'arte? Parecchio e questo film lo dimostra pienamente. Premiato a Cannes l'anno scorso, il film racconta in un unico flusso narrativo, quasi senza interruzioni, le indagini relative ad un omicidio il cui colpevole, reo confesso, accompagna un gruppo eterogeneo di personaggi (poliziotti, un procuratore, un medico legale) alla ricerca del corpo della vittima, sepolto in un punto imprecisato della campagna turca. Nuri Bilge Ceylan, il regista, viene definito in patria l'Antonioni turco e si capisce perchè: grande attenzione ai dialoghi (e ai silenzi), precisione calligrafica nel descrivere i protagonisti, regia aderente alla realtà ma capace anche di guizzi surreali. La prima ora e mezza è straordinariamente beckettiana, notturna, introspettiva e sinistramente affascinante con questi personaggi in cerca d'autore e di un cadavere che viaggiano come nomadi per le colline e le pianure turche chiacchierando di come va il mondo e su cosa bisogna fare per farsi ricordare dai posteri. La seconda parte, diurna ma non solare, è eufemisticamente meno digeribile perchè, raggiunto l'obbiettivo apparentemente primario (la scoperta del cadavere), si sposta totalmente su un singolo personaggio ed su un mistero appena accennato nel primo “tempo”, cambiando completamente registro, stile e ritmo. Film spiazzante e polimorfico, ma da vedersi è davvero una faticaccia e non tutti potrebbero avere la forza e la voglia di arrivare alla fine.