filosofia - soprattutto
Questo spiega in parte alcune questioni.
Non ho alcuna competenza di traduzioni e adattamento, come molti qui dentro leggo basandomi sulla forza delle varie argomentazioni. Per deformazione professionale ho molto rispetto per i percorsi universitari e i titoli accademici, almeno fino a prova contraria. Oltre al buon senso, per cui quello che a più riprese ha sostenuto Cryu mi appare logicamente e pragmaticamente più confacente al vero.
Mi colpisce la questione della filosofia per un motivo: in questo particolarissimo ambito sia la prassi funzionale che quella più spiccatamente letteraria dell’iter traduttivo sono fallimentari e respinte. Mi sono occupato occasionalmente di traduzione in ambito filosofico, solo come studente, soprattutto nel corso di Filosofia del Linguaggio. Il fatto che tu abbia citato proprio la filosofia mi fa intendere alcune linee di fondo che caratterizzano il tuo lavoro di adattatore e i principi che ti distinguono. Più come comprensione che giustificazione.
In filosofia colui che determina un’idea e i neologismi ad essa collegati ha il primato sul ricevente. In altre parole, non è tanto la comprensibilità in uscita il vero obiettivo del filosofo quanto l’esigenza di attrarre l’uditorio verso le categorie (nuove, specifiche o particolari) contenute nel messaggio stesso. Si parte della presunzione di autorialità, quella che, in effetti, porta il pensatore a scomodare nuove forme di pensiero ulteriore, di cui il ricevente deve ricostruire contesto, ambito, sviluppo ed esito di particolari scelte lessicali che sono alla base del pensiero. Nel momento in cui questo avviene, non ha più senso domandarsi se quel determinato concetto avrebbe necessitato di altre e migliori parole, quelle esistenti rappresentano l’unica e forse migliore concretizzazione di quell’idea. Se una specifica intuizione (per non parlare di “oggetto tipico di pensiero”) non esiste nella lingua di arrivo della traduzione, preoccuparsi di adattarla è inutile. Anzi, più che inutile, dannoso. Soprattutto per il destinatario, visto che è a lui precluso il guadagno di studio e consapevolezza dato dall’approfondimento.
Per questo motivo, la traduzione in filosofia è una prospettiva sempre perdente. Un concetto che tutti, qui dentro, hanno ripetuto e su cui si può convenire. La differenza sta nel fatto che nella traduzione di concetti filosofici si decide scientemente di non tradurre affatto, vale a dire anche all’interno di un’opera caratterizzata da parole di specie il buon andamento traduttivo ammette l’irriducibilità di espressioni seminali. Per tradurre “l
ogos” servono almeno dieci righe di testo e di concetti “distesi”, cosa che allontana ogni funzionalità e bisogno di sintesi. O il teutonico dasein, la cui esplicazione diretta in “esser-ci” ed “esistenza” non rende minimamente la sua temporalità ed immanenza, il suo “essere per il mondo” ed “impegno nella discosività del presente corrente”. Questioni che, prese singolarmente, necessiterebbero di altri approfondimenti del caso solo per rendere le accezioni più evidenti. Figuriamoci le sfumature. Quindi nel corpus della traduzione si lasciano senza indugio e senza ripensamenti i termini nella lingua madre, con l’invito, neanche troppo sottinteso, a fruire l’opera in originale. Ma la filosofia non ha un pubblico generalista, né commerciale in senso stretto. L’adattatore di testi per il grande pubblico deve operare delle scelte soppesando pro e contro, il filosofo taglia il nodo gordiano della problematica.
Per queste ragioni la ricezione in sé dell’opera è solo il capitolo finale di un progressivo grado di familiarità che lo studioso deve progressivamente ricercare per una sua opportuna edificazione. E là dove la lingua è la medesima, il filosofo non ha alcun problema a forzare le parole per dire cose nuove, poiché una cosa non esiste finché non la si chiama opportunamente. Parole come “
complessificazione”, “
eideticità” e “
radicalogismo” vengono rigettare sdegnatamente da qualsiasi vocabolario che si rispetti ma di fatto esistono nella mente e nella volontà di chi, quelle parole, le incontra e le approfondisce. Ricercandone la storia. Il fatto che il linguaggio abbia una codifica inquadrata in un sistema semichiuso di regole autodeterminate (grammatica) non deve essere un limite alla sperimentazione linguistica.
Autori come Deridda, Eco, Holmes, Paz, Quine, Jakobson, Lotman, Gadamer e molti altri hanno indicato diverse prospettive, sparse in tutto il ‘900, per affrontare compiutamente la teoria che dovrebbe caratterizzare la base di ogni approccio traduttivo. Ad esempio, per Jakobson la traduzione è un trasferimento intertestuale che alla prova dei fatti deve conservare l’impronta
genetica del testo di partenza in senso culturale:
“
Nei termini di questa disciplina, la prospettiva genetica viene ritenuta l’unica accettabile. Non si può rendere il medesimo effetto della parola originale ma, analizzando le condizioni della sua costituzione, si sceglie di privilegiare la sua origine e non il suo fenomeno. Il fenomeno è sempre altro da quello che lo costituisce. La traduzione è un’offerta culturale di alterità.” (Jakobson, Essais de Linguistique génerale)
E’ una fissa del contesto filosofico, pretendere una conoscenza delle opere filosofiche di partenza. Naturalmente la specializzazione è assolutamente raccomandata (oltre che inevitabile), nella speranza di bypassare l’ingiustizia della traduzione. L’enunciazione di contenuti filosofici non ammette trasformazioni né ricompilazioni, la necessità di tradurre mette in luce i limiti del linguaggio come medium della comprensione interculturale, se non attraverso quella che si può definire una
mediazione artificiale. Il ricorso alla traduzione è un’ammissione di inferiorità da parte degli interlocutori (Gadamer), per cui la comprensione, i tali casi, non si verifica veramente tra gli interlocutori ma tra gli interpreti, nel demanio del metalinguaggio traducente.
La traduzione, pertanto, è una forma provvisoria di un oggetto inconoscibile e pertanto intraducibile realmente.
In questo senso, capisco (ma non giustifico) il tuo continuo richiamo all’origine dell’intenzionalità compositiva di un testo, per scongiurare il tradimento di una traduzione che privilegi principalmente la lingua di arrivo. Alcune tue scelte sono grammaticalmente bizzarre per la lingua che conosciamo ma forse a te questo non interessa, avendo (inconsapevolmente?) optato per un modello filosofico.
Ma qual è il prezzo da pagare? Nel tuo pensiero Miyazaki è assimilabile a un costrutto filosofico peculiare?
Il senso dei rilievi che ti vengono fatti sta tutto qui: le tue scelte di traduzione hanno un senso preciso e una logica interna (particolare) ma non possono, senza contraddittorio alcuno, porsi come perfette e indiscutibili.