In fondo non ho mai preteso tanto. Volevo solo essere superiore a DIO. Quando arrivavo sulla riviera adriatica per il solito viaggio dai nonni , a seguito famiglia, nei record che apparivano in quasi tutti i cabinati, presenti nelle sale giochi o a margine del bar dello stabilimento balneare, c’era al primo posto un DIO. Tre lettere da inserire per lasciare impressa la propria firma di virtuoso di videogiochi. Quindi la mia estate era votata all’annichilimento di DIO. Volevo semplicemente spazzarlo via dalla classifica, mandarlo fuori dal gioco, seppellirlo con la mia sigla, che esprimeva il massimo del narcisismo: AAA, la sigla dell’anonimo. Lo scopo era occupare, in ogni cabinato a cui mi dedicavo, tutte le posizioni dei record con il mio marchio a fuoco, fino a che nessuno osava più avvicinarsi al gioco, men che meno DIO.
C’era una sala giochi sotterranea, piena di cabinati. Odore di aria chiusa e di sigarette, l’antitesi dell’estate al mare. Il primo impatto era con il gestore. Un individuo dall’aria indolente e passiva. Gli davi i soldi e lui schiacciava un bottone che azionava la macchinetta dei gettoni. Lo scopo delle mie visite serali, oltre quello di incastrarmi in un cabinato, era quello di provocare una reazione emotiva del suddetto individuo. Prima o poi mi avrebbe odiato, perché i venti gettoni che avevo comprato, mi sarebbero durati diversi giorni. Dopo una settimana quando scendevo dalle scale con il solito marsupio penzolante, in cui erano conservati un diecimila lire, un pacchetto di Camel, e le chiavi della macchina, mi guardava con malcelato disprezzo. Sapevo che prima o poi mi avrebbe fatto trovare il mio cabinato preferito spento, con un pezzo di carta su cui ci sarebbe stato scritto: GUASTO.
Ero sempre il primo ad arrivare per prendermi lo sgabello, che mi sarei trascinato dietro tutta la serata. Lo sgabello era fondamentale, giocare in piedi era da sveltina, non da vero professionista. Al centro della sala c’erano le macchinette più nuove, che mangiavano soldi ed erano spesso frequentate da comitive pre discoteca. Insgabellati e al perimetro, noi altri, chini e concentrati su giochi mito: nessuno osava entrare nel nostro territorio.
Tuttavia delle volte giocare in santa pace, aggrappato al proprio cabinato preferito, era quasi impossibile. Dalle case di villeggiatura sul mare arrivavano i marmocchi. Erano tempi in cui i bambini giravano senza body guard. Con i loro pantaloncini corti, maglietta gialla difterite e immancabile gelatino al limone con bacchetta di liquirizia, ti si piazzavano a lato con il disgustoso sorbetto che gli colava sulle mani. Alcuni in silenzio, altri lapidandoti con commenti sul gioco, di cui oltre a non saperne niente, pretendevano di fare pure gli esperti. Due possibilità: eliminazione fisica con oggetto contundente o la mossa strategica di farlo sparare. Il nanetto vomitevole cominciava a premere con foga sul tasto di fuoco con gli occhi sbarrati sullo schermo. Lo scopo era fargli slogare una spalla incitandolo a mettercela tutta. Mi ero sempre chiesto perché sui cabinati venivano piazzati mini portacenere, assolutamente inutili, ma in quei momenti si rivelavano fondamentali per dare il colpo di grazia. Accendersi una bella camel senza filtro, grazie al fatto che avevi una mano libera, per provocare una congiuntivite da fumo passivo al nanetto intento a sparare, regalava momenti di sublime estasi. Mai e poi mai si sarebbe permesso di riprovare a fracassarle agli strani tizzi che abitavano il perimetro.
Prima di partire, tornavo per l’ultima volta in sala giochi e provavo la roba nuova per finire i gettoni accumulati. L’anno prossimo, quei giochi sarebbero arrivati nel perimetro. Quando un hardcore gamer era a centro sala, gli altri capivano che stava per partire e si radunavano intorno a lui, non per salutarlo, ma per vederlo fallire sui nuovi giochi, in una sorta di rivincita morale, perché di questa razza ci sono solo un tipo di individui: i bastardi dentro.
Io la mia l'ho detta...o l'ho raccontata.
salut