Autore Topic: Uomo e Natura  (Letto 1525 volte)

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Offline Gargoyle

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Uomo e Natura
« il: 30 Giu 2003, 18:48 »
Quanto ho scritto è una rielaborazione della “brutta copia” di un mio tema di un paio d’anni fa. Allora le mie scarse nozioni di storia della filosofia giungevano fino all’inizio dell’Ottocento. Oggi, siccome mi dedico a tutt’altro argomento, non mi sento in grado di integrare tutto ciò con cenni ad Hegel, Comte e Nietzsche. Tutto ciò è chiaramente del tutto opinabile e personale e, temo, in più punti anche inesatto. Ciononostante mi pareva interessante e quindi ve lo propongo.

La visione della Natura nella filosofia Europea [da Talete a Schelling]

I primi filosofi europei, di cui abbiamo memoria, iniziarono le proprie speculazioni proprio a riguardo della vera essenza dell’Universo che si presentava i loro occhi. Essi cercavano, nella multiforme realtà del mondo, un archè, un principio, una legge, una forza anche divina che permettesse loro di interpretare e comprendere le varie differenti manifestazioni della natura. Talete trovò ragionevole identificare tale archè nell’Acqua, “elemento” cui viene spesso associata la vita stessa. Anassimandro ed Anassimene rintracciavano invece questo archè in un principio infinito ed indeterminato che genera ogni cosa e che l’uno chiamava àpeiron e l’altro “aria”. La scuola filosofica degli eleati (che identificava l’archè con un “essere” ingenerato, eterno ed immutabile) sosteneva d’altro canto la non reale sussistenza del mondo che si presenta ai sensi umani. I “fisici pluralisti” e Democrito diedero al contrario un’interpretazione apparentemente più ragionevole e pragmatica della natura senza comunque portare delle prove che dimostrassero la giustezza delle proprie tesi e che confutassero quelle altrui. Innanzi a tanta varietà di interpretazioni ed opinioni, nessuna suffragata da ragionamenti o prove che non potessero essere messe in discussione, non sorprende sapere della nascita di un pensiero scettico e relativistico, incarnato dalle figure dei filosofi sofisti. Criticati da più parti, essi ebbero l’innegabile merito di aver smascherato contraddizioni ed incoerenze di pensiero che troveranno migliore descrizione solo ventitrè secoli dopo, alla fine del XVIII secolo dopo Cristo quando Immanuel Kant nella dialettica trascendentale della “Critica della Ragion Pura” arriverà ad asserire che la ragione teoretica non è in grado di asserire nulla in campo gnoseologico che non si possa contraddire e generi, quindi, antinomie. I filosofi ellenici successivi a Gorgia e Protagora dovettero pertanto affrontare direttamente lo spettro del relativismo per giungere infine all’elaborazione di “sistemi” filosofici “assoluti”, “universalmente condivisibili”. Socrate, lasciato da parte il “razionalismo” di chi l’aveva preceduto e che pretendeva di interpretare la realtà senza avere un vero contatto con “empirico” con essa, usò come strumento conoscitivo il dialogo, ritenendo che dal confronto di idee diverse si potesse giungere a formulare una tesi condivisa da tutti i dialoganti assennati. La verità cui poteva giungere Socrate era dunque non una verità relativa, bensì una verità (come lo sono le verità scientifiche) suscettibile di miglioramenti futuri causati dall’apporto di nuove tesi ed opinioni. Ma alla filosofia metafisica, come sottolinea la parola stessa, le verità della scienza e più in generale tutte la verità non assolute non sono mai bastate. E così Platone, ex-discepolo di Socrate, partendo dal fondamento che la filosofia dovesse ricercare un sapere assoluto e che il mondo sensibile fosse privo di tale assolutezza elaborò la sua “teoria delle Idee” che metteva in seria discussione la realtà ontologica della natura, vista come mero riflesso di un iperuranio di idee razionali. Sotto certi aspetti, il valore della filosofia di Platone stà nella geniale ideazione del mito della caverna: gli uomini, colle mani legate sono costretti in una caverna ed obbligati ad osservare delle ombre proiettate da alcuni oggetti posti dietro di loro (e che essi non possono vedere non potendo voltarsi) illuminati da un falò; se gli uomini potessero liberarsi essi potrebbero fuggire dal mondo di ombre in cui hanno vissuto fino ad allora ed ammirare ciò che si estende al di là della caverna. Molte delle filosofie successive (o precedenti) a quella di Platone possono essere forse comprese come un diverso svolgimento del medesimo mito. I sofisti possono ad esempio essere visti come filosofi incapaci di discernere la differenza tra le ombre e la realtà esterna alla caverna. Alla “teoria delle Idee” sono poi succeduti sistemi di pensiero caratterizzati da un maggiore contatto colla realtà empirica, come quello aristotelico ed epicureo (pure diversissimi fra loro). La filosofia cristiana ebbe invece un carattere assai più astratto e razionalista, come testimonia la risoluzione realista della disputa sulle idee universali (attribuendo così sostanzialità, come faceva Platone, a meri costrutti della mente umana) ed il perdurante problema se sia possibile o meno dimostrare con l’uso della ragione le “verità” di fede (la migliore risposta a questo quesito è l’argomentazione dei talleri della dialettica trascendentale di Kant). Questo carattere astratto e razionalista della filosofia cristiana fece sì che per tutto il MedioEvo si desse poca rilevanza agli studi, scientifici o meno, sulla natura (vista peraltro come fonte di perdizione e peccato). Al contrario si assiste durante il periodo dell’Umanesimo e soprattutto del Rinascimento ad un rinnovato interesse per gli studi sulla natura, anche panteisticamente intesa (come nel pensiero di Giordano Bruno). Spicca tra tutti per modernità il pensiero di Tommaso Campanella, i cui ragionamenti sulla natura e sui mezzi che l’uomo possiede per indagarla sono ben riassunti in un suo stesso discorso: ”Il senso è certo e non vuol prova, che egli è la prova; ma la ragione è conoscenza incerta, però vuol prova: e, quando s’adduce, la prova e la causa si piglia da un’altra sensazione certa”. In un simile clima culturale si sviluppò il pensiero galileiano, a tutt’oggi uno dei fondamenti della scienza moderna. Tale pensiero si fonda sul metodo scientifico che consta di un momento analitico in cui si eseguono “sensate esperienze” (ovverosia accurate osservazioni di dati sperimentali) e si formulano delle ipotesi interpretative rispettose dei rapporti di causa-effetto, ed uno sintetico in cui si deve verificare l’effetiva validità dell’ipotesi prima formulata mediante nuove esperienze prima di conferire a tale ipotesi il valore di legge (a dire il vero la scienza contemporanea ha perduto la pretesa di descrivere effetivamente la realtà e si prefigge piuttosto come scopo la creazione di modelli interpretativi della realtà: alcuni di essi, come quello di Darwin per l’evoluzione, non sono, per ovvi motivi, sottoponibili ad una verifica sintetica e sono accettati dalla scienza come teorie, e non come leggi o principi, perchè interpretano discretamente secondo rapporti di causa-effetto pragmatici o relazioni matematiche alcuni dati; questo discorso non vuole comunque sostenere una presunta a-scientificità del metodo galileiano, bensì precisare l’evoluzione stessa di tale metodo, che resta comunque sempre legato all’interpretazione di dati ed esperienze mediante il ragionamento induttivo). Si discosterà (parzialmente) dal metodo galileiano il pensiero di Cartesio: egli aveva come scopo dare una dimostrazione razionale dell’effettiva esistenza di quello stesso mondo che era oggetto della scienza galileiana. Inizia ad argomentare asserendo che, inizialmente, l’unica cosa di cui possa essere certo l’uomo sia la sua stessa esistenza perchè capace di pensare. Tramite il pensiero troverà però ragionevole supporre che un essere imperfetto come egli è non possa avere come idea innata quella di perfezione: siccome possiede tale idea, dev’essergli stata inculcata da un’entità esterna perfetta; quest’ultima (Dio) non avrà, essendo perfetta, alcun motivo per far cadere l’uomo in errore e porlo innanzi ad una “realtà” che non sia quella “vera”: da ciò Cartesio deduceva che il mondo con cui l’umanità si rapporta fosse realmente esistente ed interpretabile come “res cogitans” e “res extensa”, la prima delle quali libera mentre la seconda determinata e matematicamente interpretabile. Il pensiero cartesiano è però caratterizzato da un certo apriorismo. Come dice Abbagnano, Cartesio “procede non di rado guidato dalla convinzione di poter cavare dalla propria testa le leggi che governano il mondo e la natura”. Questa giusta critica è a maggior ragione applicabile ad altri pensatori razionalisti del XVII e XVIII secolo come Spinoza e Leibniz. Il primo identificava la “res cogitans” e la “res extensa” di Cartesio in un unico principio che era per lui una natura panteisticamente intesa. Il secondo riduceva la natura che ogni entità spirituale (monade) percepisce a mera riflessione “angolata”, distorta, del reale universo di monadi e criticava inoltre lo stesso principio di causa-effetto postulando una sorta di “armonia prestabilita” della natura. Volendo rapportarsi al mito della caverna platonico si potrebbe affermare che Cartesio vedeva la caverna (“res extensa”) e l’esterno (“res cogitans”) come distinte ma senza che l’una avesse un maggior valore ontologico dell’altra. In Spinoza tali realtà trovano una sorta di unificazione mentre in Leibniz ritorna l’interpretazione della “res extensa” come rifesso di una realtà avente un maggiore grado di verità. Esponenti dell’empirismo come John Locke ritenevano che il mondo esterno all’io fosse percepito tramite le idee che tale mondo esterno suscita nelle persone. Un simile tipo di conoscenza, tendenzialmente “passiva”, apriva però le porte allo scetticismo di David Hume, il quale potè senza problemi negare i rapporti di causa-effetto sussistenti fra gli eventi perchè non più sorretti nel pensiero empirista da altro che non fosse l’esperienza: a Hume bastò chiamare quest’esperienza come abitudine che non necessariamente deve rispondere a verità per mettere in crisi un intero sistema filosofico caratterizzato o da eccessivo dogmatismo o da assenza di principi necessari (rispettivamente razionalismo ed empirismo). Le tesi di Hume colpirono profondamente Immanuel Kant, filosofo di tendenze inizialmente leibniziane e che proprio da Hume disse di essere stato “svegiato dal proprio sonno dogmatico”. Nella sua opera di maggior interesse gnoseologico, la “Critica della Ragion Pura”, Kant vuole esaminare quali siano i limiti entro i quali la ragione possa formulare una sentenza senza timore di essere smentita o di cadere in contraddizione. Per fare ciò Kant afferma che l’uomo può percepire la realtà tramite delle intuizioni e dei concetti a priori e che solo tramite essi può conoscerla e comprenderla: ma tali intuizioni ed a priori, essendo propri della mente che vuol conoscere il mondo e non del mondo in questione, deformano (o meglio, è possibile che deformino) come lenti la realtà stessa. La realtà così percepita (fenomenica), potrà essere differente dalla realtà veramente esistente (noumenica) ma rimane come l’unica conoscibile dall’uomo. Per Kant la facoltà che studia (a buon diritto) la natura è l’Intelletto (facoltà esaltata in periodo Illuminista, periodo visto con terrore di recente da certi intelligentissimi “politici” come Bossi, che probabilmente hanno una gran nostalgia per il MedioEvo) mentre quella che pretende erroneamente di applicare intuizioni e concetti a priori al mondo noumenico è detta Ragion Pura Teoretica (esaltata al contrario da certi filosofi romantici). E’ importante inoltre sottolineare come uno dei concetti puri che “usa” l’Intelletto kantiano per comprendere il mondo consista di fatto nella causalità che implica un effetto. Si noti che permane in Kant quel dualismo che affligge, in diverso modo e con diversi esiti, la filosofia da Platone in poi, cioè la distinzione tra una realtà effettiva ed un’altra più o meno “falsa” percepita dall’uomo. Tornando al mito della caverna, Kant afferma che per il filosofo come per chiunque altro sia impossibile ergersi ad osservare e comprendere il noumeno fuori dalla caverna: il mondo fenomenico non sarà quello ontologicamente esistente, ma rimane l’unico conoscibile. I sigilli che Kant giustamente pone all’entrata della caverna saranno però presto rotti dagli idealisti romantici come Fichte e Schelling. Per il primo, filosofo della morale e dell’azione, il mondo che circonda l’io è una creazione stessa dell’Io (questa volta inteso più o meno come un fantomatico “Spirito dell’Umanità”) per autolimitarsi e creare i presupposti per l’eseguibilità dell’azione morale, intesa come “streben” (sforzo) contro il non-io. Schelling cercava invece di coniugare il panteismo spinoziano con la visione fichtiana dell’io, riunendoli in un’essenza che egli chiamava “l’Assoluto”, in cui l’io è essenzialmente quella manifestazione della natura in cui la natura stessa diviene senziente ed acquista autocoscienza.

Non mi sembra condivisibile la visione romantica della natura e del mondo: le proposizioni assiomatiche su cui si basano il pensiero di Fichte e Schelling sono negabili senza che questo comporti alcun problema logico e morale. Ritengo infatti che l’Uomo, nelle sue attuali condizioni, non abbia modo di sapere se le ombre che fissa siano non-essere, essere, se siano creazioni della sua mente o di quella di qualcunaltro. E’ quindi abbastanza inutile pretendere di ricercare una realtà più vera di quella fenomenica: tutti coloro che dicono di essere usciti dalla caverna non ci hanno nè portato con loro nè ci hanno fornito “mappe” attendibili per far uscire anche noi nè tantomeno fornito prove dell’esistenza del mondo fuori dalla nostra ipotetica caverna; non vedo dunque alcun motivo per condividere quanto affermano. Viceversa fino ad ora la natura che si presenta ai nostri sensi viene efficacemente compresa grazie alla Fisica e mediante i rapposti di causa-effetto (unica “categoria” kantiana ancora più o meno accettata dalla scienza moderna, visto che Heisemberg ebbe a dire che gli altri principi kantiani “non sono più accolti nel sistema della Fisica moderna”, a causa dell’affermarsi della Fisica Relativistica e della Quantomeccanica). Dunque perchè dovrei avere la necessità di ricercare un mondo dotato di un grado maggiore di verità se appena mi accingo a farlo, appena mi accingo a ripudiare l’esperienza sensibile quanto dico perde ogni valore scientifico e diviene pertanto del tutto opinabile? Inoltre il mondo fenomenico rimane pur sempre quello in cui le personalità umane hanno modo di crescere e svilupparsi, di agire e , soprattutto, di pensare e di ragionare: non sembra un mondo che limiti particolarmente (a livello aprioristico ed involontario) il libero sviluppo della psiche di ciascuno; certo io non saprei chiedere di più da questo punto di vista. Ricercare una verità assoluta è comprensibile ma ogni tentativo in tal senso si è rivelato e si rivela a-scientifico. In sintesi, parafrasando Kant, non si contesti all’Intelletto ed alla Scienza ciò che fa di essi il bene più alto per l’uomo: il privilegio di essere l’ultima pietra di paragone della verità.
"I've always known it. I should've killed every last one of them! I should've turned their planet into a graveyard the likes of which the galaxy had never seen!" Gul Dukat to Captain Sisko, Star Trek: Deep Space Nine.