Oh, allora, visto e gustato tutto, nella gloriosa cornice dei 90-95 minuti.
Allora, di base è un film senza particolari sorprese, accade tutto quello che di intuibile e di prevedibile potrebbe esserci nello svolgimento. In realtà la grande intuizione del film sta nel titolo “Prey”, che poi è lo speculare di “Predator”. Nel film il punto di vista si ribalta spesso e nel gioco delle parti tra cacciatore e preda è sempre una questione di punto di vista e di riconoscimento di ruoli. La genialata è stata anche quella di vedere il predator rendersi progressivamente consapevole delle gerarchie di cacciatori e inserirsi in questa catena alimentare-predatoriale per provare la sua forza: animali tra di loro, uomini contro animali, uomini contro uomini e infine lui contro uomini. Molto figo.
C’è una frase, filosoficamente molto pregna, che mi ha colpita e dà senso al film:
“Se non riescono a vederlo tu mostraglielo.”
Difatti si tratta di percorso di coscienza e di autocoscienza. Della protagonista rispetto alla sua tribù e al rito di passaggio; del disvelamento del pericolo che minaccia la comunità; della capacità di apprendere sul campo e sopravvivere, attraverso lo studio del nemico e dell’ambiente; del concetto di “preda” e di come questo sia il dispositivo per giungere all’epilogo con la furbizia. Il nostro filtro per comprensione del film passa per la figura della protagonista che letteralmente porta sulle spalle tutta la pellicola con il suo progressivo “vedere”.
Quello che potrebbe essere considerato il limite più grande del film è in realtà quello che lo salva e lo valorizza, ossia il budget contenuto. I dialoghi sono esigui, è un film di natura bellissima e violenta che riempie la maggior parte del minutaggio. La regia è sobria, asciutta, non cincischia in elementi inutili e procede accelerando sempre di più in un tripudio di sangue e morte. Convincente e con passaggi naturali, senza forzatura e sciocchezze, complice anche la bella fotografia. Anche se non mancano scene molto forti, come quella dell’orso o quella della nebbia, tutto così fisico, sentito, materiale. Eccellente la realizzazione dell’alieno, anche lui tre secoli dietro rispetto a quanto visto negli altri film (per scelta coerente con l’ambientazione oppure perché certe tecnologia non sono ancora disponibili? Chissà…) si evince dall’equipaggiamento della maschera-mirino che funziona opportunamente a dardi. Più forte, più brutale e anche più istintivo e alla ricerca di scontri frontali pur nella logica stealth che contraddistingue la razza. Vuole mettersi alla prova per la questione che ho detto poco prima. Meno tattico e più immerso nella contestualizzazione di un mondo fatto di rapporti di forza.
Diciamo che il limite di budget si vede nelle scene in CG abbastanza palesi ma mi sembra un aspetto secondario rispetto a quanto di buono si veda.
Certo, è un film che si poggia anche su stereotipi e tematiche delicate, dal tema dei nativi all’uomo bianco cattivo, all’emancipazione femminile mostrata in un certo modo e così via ma li ho trovati elementi narrativi classici più che ideologici. E in fondo Predator è sempre stata un’opera di registri manichei, per quanto il primo sia anche un modo di allegorizzare l’esperienza vietnamita.
Buone anche le musiche, che apprendo essere di una compositrice che ha già lavorato per Assassin’s Creed e in generale anche il comparto sonoro, fatto anche di silenzio e suoni naturali.
Per quanto riguarda quello che si vede al termine dei titoli di coda
Gli alieni torneranno per sfidare la nostra bella... Alla fine del film vediamo la pistola che poi sarebbe stata quella donata al termine di “Predator 2” dagli alieni dopo che il mitico Glover/Harrigan ha faticosamente fatto fuori uno di loro. Se quella pistola è un trofeo di battaglia e di vittoria allora la nostra indomita Comanche è stata uccisa a sua volta da qualche predator che ha voluto sfidarla nuovamente. Un sinistro riferimento di morte.
Bello comunque, un piccolo film fatto con gusto e passione, da parte di chi Predator lo ama e c’è cresciuto. Tantissimi i riferimenti e le scene rese proprio nello stesso modo, tra cui anche il mitico “
if it bleeds we can kill it”.