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Perché la resistenza armata è etica
di Luigi Manconi
Chi abbia letto i racconti partigiani di Beppe Fenoglio ricorderà con quanta ansia le diverse formazioni della resistenza attendessero e, poi, con quanto sollievo accogliessero i lanci dei rifornimenti (armi, attrezzature, tabacco) da parte degli aerei degli eserciti alleati.
E quanto quelle provviste che piovevano dal cielo contribuissero a determinare il morale dei combattenti, la loro capacità militare e l’equilibrio dei rapporti di forza sul campo.
Di conseguenza fatico a immaginare perché mai — pur essendo nel frattempo cambiato il mondo — inviare mezzi militari ai resistenti ucraini costituisca un errore irreparabile e un rischio mortale. Per me l’Associazione nazionale partigiani d’Italia è sacra, ma non riesco proprio a intendere le parole del suo presidente Gianfranco Pagliarulo quando afferma che «l’invio di armi in Ucraina espone il nostro Paese a un grave pericolo». E, dal contesto, si evince che quanto si teme sia la rappresaglia contro l’Italia, oltre che l’acutizzarsi del conflitto. La conseguenza ultima, ma coerentissima, di un simile ragionamento è quella di chiedere — qualcuno già lo fa — la resa immediata dell’Ucraina. Ma, con questa logica, si sarebbe dovuto rinunciare a gran parte delle azioni armate della Resistenza, con l’inevitabile mortificazione di qualunque ruolo dell’Italia nella guerra di liberazione e di qualunque successiva ambizione all’indipendenza e alla sovranità nazionale.
Ecco, pur considerando il profondo mutamento intercorso tra l’Europa degli anni Quaranta e quella odierna, credo che il sostegno ai cittadini ucraini per difendere l’identità, la dignità e il ruolo futuro di quel popolo, sia cruciale. Dico questo perché ritengo che le posizioni di quanti si dichiarano pacifisti vadano prese sul serio e trattate con rispetto, al netto di due considerazioni. La prima: mi sembra evidente che, come mi dice Massimo Recalcati, «l’inconscio di una certa sinistra detesta la democrazia». Così si spiega, forse, l’affannarsi di tanti nel precisare puntigliosamente che «Putin non è Hitler». (Evidentemente, le grandiose pagine di Vita e Destino di Vasilij Grossman non hanno lasciato traccia tra i lettori italiani). Non sarà Hitler, ma «certo, gli assomiglia». Tant’è vero che domina la Russia ormai da 22 anni. E si è reso responsabile di stragi in Cecenia e in Siria, di massacri di donne e bambini, di distruzione di città e villaggi e di sistematiche violazioni dei diritti umani. Seconda considerazione: la più intelligente delle organizzazioni pacifiste del nostro paese, la Rete italiana pace e disarmo, che non può essere tacciata di simpatie per Putin, ha un programma di iniziative tutt’altro che imbelle. Ma che resta al di qua di ciò che impone l’attuale e irreversibile congiuntura. Che non è quella di una guerra tra due Stati, bensì di un’invasione di conquista da parte di un’armata imperiale.
In altre parole, la domanda è: cosa fare oggi — proprio oggi — mentre un colpo di mortaio annienta una madre, un padre e i loro figli in una strada di Irpin?
Ecco, fatta salva l’urgenza di tentare tutte le vie politico-diplomatiche, tutte le mediazioni internazionali, tutti i percorsi per negoziati, corridoi umanitari e cessate il fuoco: ecco, tentato tutto questo, perché mai non dovremmo sostenere, anche attraverso la fornitura di armi, gli ucraini che vorrebbero difendere quella famiglia?
È il senso di quella che già trent’anni fa, dopo l’assedio di Sarajevo e la strage di Srebrenica, chiamammo ingerenza umanitaria. Ed è, ancora, nient’altro che la trasposizione — nel ferro e nel fuoco dell’occupazione russa — dell’apologo del Mahatma Gandhi (ricordato da Vito Mancuso su La Stampa di domenica scorsa): un uomo in preda a follia omicida uccide con la sua spada chiunque incontri sul cammino: colui che trova il coraggio di ucciderlo sarà considerato un uomo caritatevole. C’è, poi, un’altra questione da affrontare, ed è il richiamo all’art. 11 della Costituzione, dove si legge: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Dunque, ciò che viene rifiutato è il ricorso alla guerra come strumento di offesa e non come mezzo di difesa: e, infatti, in Ucraina vengono inviati aiuti militari destinati a proteggere l’aggredito dall’aggressore. Che è quanto contemplato dai principi fondamentali del diritto internazionale e sancito dall’art. 51 dello Statuto delle Nazioni Unite. Quest’ultimo riconosce il «diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato».
Infine, c’è un’enorme questione etica: si deve adottare la massima prudenza per evitare effetti non voluti e che un domani quelle armi, inviate in Ucraina, siano rivolte contro di noi. Ma resta un dilemma ineludibile: davanti all’inerme che soccombe, gli “uomini caritatevoli” possono sottrarsi alle proprie responsabilità in nome del rifiuto della violenza e della guerra? E consentire — ovvero non impedire — che l’inerme sia cancellato dalla faccia della terra e dalla storia non significa, forse, perpetuare la più grande delle ingiustizie?