Voglio partire da un tweet di qualche tempo fa di
@Vitoiuvara :
TFP Link :: https://twitter.com/Vitoiuvara/status/1454013097266528259con cui concordo in modo assoluto.
Una buona base di partenza per parlare di questo gioco che mi ha preso esattamente 2 mesi, un impegno discontinuo e intermittente a causa di ridotto tempo a disposizione. In realtà, nella sue richieste minime, non credo si tratti di un titolo che prenda più di 20-25 ore, lievitando solo in caso di completismo cronico, in quel caso il tempo è assolutamente raddoppiato. Se non di più.
Allora, prima di tutto, io distinguerei un gioco che proponga uno stereotipo come modello specifico da uno che celebri uno stereotipo come motivo di interesse e glorificazione. Se una persona crede che, ad esempio, Tarantino faccia film stereotipati e non film su stereotipi (finanche crearli) secondo me non ha compreso molte bene quello che ha visto. E come si fa a dare giudizi corretti se non si conoscono generi, filoni, topoi, correnti che poi si esplicano in estetiche, rimandi, richiami che vanno a celebrare opere e universi?
Di cosa parla
Far Cry 6? Di una rivoluzione popolare contro un tiranno in un paese tropicale a ispirazione centro-sud/americana. Non è solo uno stereotipo, è un modello culturale ben preciso. Anzi, più che culturale, immaginifico come storia degli effetti. E il contesto immaginifico si traduce in icone, gesti plateali e concetti di ampio respiro. Qui c’è tutto quello che serve per celebrare questo mondo: un tiranno dispotico con scherani compiacenti e untuosi, un gruppo di rivoluzionari con estrazione diversa e con obiettivi divergenti che dovrà in qualche modo trovare una sintesi per vincere questa guerra, personaggi duri, netti e folcloristici, il tutto nella cornice di acqua, terra, sole e natura di un’isola stupenda. Quindi, di conseguenza, militari feroci, guerrigliere “
pasionarie”, giovani di belle speranze e dal grilletto facile e tante piccole punteggiature tematiche che, pur non esaurendo in profondità certi argomenti, servono a scardinare alcuni tabù narrativi del videogioco. Il continuo richiamo al fascismo, un occhio ai diritti dei lavoratori, il tema delle periferie del mondo come serbatoio occulto del mondo occidentale per tante cose, identità divergenti e orientamenti sessuali e una certa propensione aforistica al tema del risveglio e della rivoluzione. Ripeto, nulla che vada nella concettualizzazione spinta ma non credo sia questo lo scopo.
Far Cry 6 è un gioco di simboli e utilizza questo linguaggio. Se il significante non trova un referente ricettivo allora il significato non passa.
Il fatto è che, soprattutto nel mondo dei videogiochi, la parola ci renderà liberi e la consapevolezza ci reca in dono tanto divertimento, basta non raccontarsela come spesso avviene in tante, incoerenti, narrazioni forumesche. Quindi lo diciamo chiaramente,
Far Cry 6 ludicamente è un vero e proprio disastro. Il gioco perde molto tempo a istruire il giocatore riguardo a strumenti d’investigazione e ingaggio, promettendo uno spessore che purtroppo non arriverà mai. Mai seguire
Far Cry 6 lungo la strada che vuole tracciare, ci si trova al cospetto di un mission design dozzinale, di situazioni ludicamente trite e ritrite all’interno dell’open world geografico, di un’intelligenza artificiale penosa che non si preoccupa neanche di essere stolidamente feroce e uccidere a vista.
Affrontato così
Far Cry 6 invera tutto quello che di negativo si dice di (e spesso fa) Ubisoft.
Il trucco e il cambio del paradigma del gradimento prevedono che il giocatore si trasformi in quel rivoluzionario distruttivo e gioioso che può far affiorare il divertimento di pancia che il titolo può offrire. Qui avviene il discrimine tra quello che si considera qualitativamente accettabile e quello che non può esserlo. Per tirare fuori il meglio di
FC6 bisogna giocare con agenti e reagenti che da sempre caratterizza questo incarnazione di open world. Immersione ambientale, piacere ludico per spostamenti e guida e il desiderio di far esplodere e detonare qualsiasi cosa. Affrontato in questo modo
FC6 è uno spasso e forse è questa una delle tante ragioni per cui si leggono generalmente opinioni lusinghiere di critica e utenza. Conquistare una basa con intenzioni omicide e bellicose può tradursi in decine di approcci di grana grossa sul piano delle meccaniche ma sicuramente gratificanti per tutte le variazioni del caso del colossale arsenale. Un certo tipo di videogiocatore si forma negli anni ’80 e sono gli anni di
Commando, Ikari Warriors, P.O.W., in quella inesauribile vena militarmente manichea che trova naturale sfogo nel conflitto armato in luoghi esotici, sperduti e mitologicamente adatti, così a suo agio con il videogioco. Come una rivoluzione isolana.
Questo naturalmente non rende
FC6 immune a qualsiasi critica, il problema consiste appunto nella particolare disposizione d’animo con la quale in giocatore si avvicina alla sua offerta. Per molte ragioni è scadente ma condivide il destino di molte opere simili, il cui gradimento deve essere rintracciato su diversi piani interpretativi. Il primo aspetto da considerare è senz’altro la consapevolezza che dovrebbe accompagnare il giocatore che si accosti a un open world.
Di open world ce ne sono tanti e di tante declinazioni e
FC6 appartiene alla tipologia geografica con interessanti (quanto sparute però) incursioni nel level design. Essendo un’espressione videoludica relativamente recente e molto di moda possiamo dire che la sua attuale definizione sia soggetta alle temperie del mercato e magari condizionata in molti modi.
Detto questo però, a me sembra che generalmente l’utenza non sia molto equilibrata nell’indicare la differenza tra un gradimento personale (positivo, negativo o quel che sia) e il fatto che un genere abbia caratteristiche costitutive.
L’open world spesso vive del piacere di affrescare un mondo in chiave estetizzante e nel goderselo in fase di traversal. Vive di queste sensazioni, non perfettamente coese al concetto di gameplay ma comunque soggettivamente capaci di far attardare il giocatore all’interno di un titolo.
Quando leggo cose del tipo: “
In Breath of the Wild è noioso camminare!” oppure “
In RDR cavalchi e non fai niente”, il mio cervello, relativamente al tipo di gioco e alla destinazione d’uso, è come se leggesse “
In Fifa 2022 segnare non ha senso!” oppure “N
on mi piace il fatto che in Gran Turismo sia necessario piazzarsi nelle prime posizioni”, ossia la negazione della ragione per cui quel genere di esperienze esista. Insomma, non considero molto logico lamentarsi per aspetti costitutivi di una data esperienza che, se appunto non si gradisce, può tranquillamente essere tralasciata senza lamentarsene sul piano formale. Esiste gente che ha voglia di perdersi in determinate ambientazioni. Ci sono utenti che amano attraversare uno spazio videoludico come generatore infinto di istantanee, suggestioni, momenti unici e significativi. Perdersi in un mondo,
un mondo aperto difatti, senza limiti e costrizioni. Che differenza c’è con quanto sostengono i sommelier del videogioco rispetto a, che so, esperienze indie sospese e sognanti, quelle che sovente si disinteressano di costrutti ludici elaborati? Perché un gioco indie sì e un prodotto AAA no? Si possono gradire anche giochi di questo tipo, previo riconoscimento della loro intrinseca inadeguatezza ludica, ci mancherebbe. Ma quella non dovrebbe mancare mai. Poi, per fortuna, ci sono anche altri modi di interpretare questo filone e fa molto piacere constatare come, proprio a conferma della diversa natura che può assumere, la scuola nipponica abbia offerto esempi esemplari di mutua dipendenza tra ambiente e gameplay (
BOTW, Death Stranding e, speriamo,
The Elden Ring), sono semplicemente modi diversi.
Per quel che concerne
FC6 l’obiettivo è quello di illustrare un mondo assolutamente coerente con la sua mitologia, caratterizzato da 4 macro zone assai diversificate. Un arcipelago di isole e isolette sul modello delle
cayos con golfi azzurrini e strisce di candida sabbia ad affiorare di poco sulla superficie, creando paradisi tropicali. Nella zona più interna si alternano pianure scabre e rocciose, interrotte da cordigliere di monti dalla forme arrotondate e a terrazzamenti che prendono il nome di
mogotes, di calcare bianco e cinte di vegetazione lussureggiante. Da altre parti, foreste tropicali e bayou acquitrinosi rendono il paesaggio impervio e soffocante, con una luce distorta che non arriva al terreno. Però ci sono anche colture di tabacco, canna da zucchero, agrumeti, caffè e ortaggi, il tutto circondato da lussureggianti palme e della licenza poetica della
mariposa di concezione cubana. Ma anche centri abitati rurali e villaggi di pescatori, con tante serre, con l’aggiunta di fabbriche, centrali elettriche, dighe a cui s’alternano rovine di antichi popoli. E sullo sfondo la città di Esperanza, metropoli decadente con grattacieli e quartieri popolari in cui risuona musica rabbiosa e con i murales della resistenza. Che bello sorvolare il tutto con un mezzo volante, lanciarsi col paracadute o con la tuta alare e godersi i tramonti di questa terra tormentata.
Far Cry 6 è apprezzabile già solo per questo.
Io fatico a capire l’esigenza di estremizzare ed esasperare i contenuti di un videogioco negando quanto abbia di buono solo in virtù dei suoi limiti evidenti. Oh, non esiste sempre la migliore intelligenza artificiale, non deve trovarsi per forza Il migliore level design di sempre e non è che la recitazione virtuale debba essere necessariamente la più convincente di ogni tempo. E si torna al tweet di Vito poco sopra. Ovvio che un aspetto non debba essere del tutto nullo, in quel caso le critiche sono lecite, però ecco bisognerebbe mettere tutti gli elementi nel computo del giudizio. Ci sono giochi che fanno bene alcune cose e male altre. Ma negare le prime perché sono presenti le seconde a me pare proprio perdersi quanto di buono un’esperienza possa offrire.
Poi sì, si può entrare nello specifico delle diverse attività.
- Le missioni della main sono semplicistiche e piuttosto scontate nella copertura di diverse situazioni tipiche del genere. L’assalto a basi, fortezze, installazioni ecc., gli inseguimenti con mezzi vari, l’infiltrazione e la guerra in senso stretto. Per fortuna è tutto almeno vario e difficilmente il gioco si ripete, soprattutto nello sfruttamento della mappa. Non si allontana troppo da quanto già esperito altrove (e meglio) e non si prende responsabilità effettive nel provare qualcosa di diverso ma in questo si sperimenta tutta la stanchezza dell’open world del decennio 2010-2020 che reitera e replica se stesso senza soluzione di continuità. E, a quanto mi dicono, anche all’interno del franchise di riferimento, reskinnato con semplice cambio di latitudine. Peccato.
- Attività ridondanti come liberazione di avamposti stradali o recupero di materiali sono sempre proposte e offerte senza sostanziali differenze, con un’addizione puramente numerica di oggetti e ricompense. Ubisoft al suo peggio, divertimento di bassa lega non troppo edificante, lo stesso che a volte funesta anche Assassin’s Creed.
- Al contrario, le basi del regime sono ben diversificate, dotate di specifico design e approcci interessanti, molto varie come setting ed estetica e culmine ludico del titolo. Si può scegliere di giocare con esse, ma proprio nel senso nobile di sandbox, visto che le diverse mappe sono organizzate per sviluppare competenze particolari e filosofie anche antitetiche. Come già detto la scarsa intelligenza artificiale nullifica strategie elaborate, per cui giocare in un certo modo (stealth) è un puro vezzo e soddisfazione personale. L’approccio muscolare, invece, dona delle gran belle soddisfazioni, tra cumuli di cadaveri, serbatoi che esplodono, fiamme che continuano ad appiccare fuoco a ogni cosa, elicotteri che precipitano colpiti dalla sciame di missili del Supremo e quella sensazione di guerriglia che è il senso del gioco. Sensazioni di pancia ma cionondimeno gustose.
- La cacce al tesoro sono davvero uno sballo, c’è più level design e ricercatezza in questi piccoli dungeon tematici che nelle tombe dei reboot di
Tomb Raider. Ovviamente sono molto lineari però bisogna raccapezzarsi un attimo per capire la richiesta al giocatore. In certi casi poi la messinscena è poderosa, mentre in altri stavo un attimo sbroccando per capire il senso, che poi è arrivato. Le ricompense poi sono adeguate. L’unico rammarico e non averne a disposizione un numero maggiore, davvero molto interessanti e coerenti al contesto.
- Le gare sono poche e fino al termine del gioco le ho accuratamente evitate perché di solito è roba che mi annoia molto. Invece mi sono trovato con una buona applicazione di percorso a ostacoli con importanti variazioni ambientali e di meccanica. Alcune sono davvero difficili e richiedono tentativi su tentativi, tanto da tirare fuori un’anima arcade che non ti aspetti all’interno di un titolo di questo genere e con questa intensità. Anche in questo caso avrei voluto averne di più, davvero un bel diversivo.
- Le attività di caccia e pesca sono relegate a specifici spazi, in cui la prima è davvero la classica applicazione da zona in cui rinvenire la preda di turno che gironzola nei pressi tipo zoo, quindi molto basica; la seconda, invece, prevede di sbattersi un po’ di più con una meccanica che sembra presa di peso da
Assassin’s Creed Valhalla ed è valutabile solo in virtù del tempo necessario a esaurirla. In realtà il gioco presenta una piacevole fauna di sottofondo, molto coreografica e convincente, forse sarebbe stato meglio la mera presenza coreografica senza impelagarsi con risibili interazioni ma tant’è…
Quindi, un gioco da prendere in considerazione a prezzo ribassato e nei momenti di magra, fa il suo senza troppi problemi e potreste trovare motivi personali di gradimento.
Insomma, alla fine della fiera il simbolo che riassume l’esperienza di
Far Cry 6 si trova tutta nell’immagine della sua mascotte principale, ossia il dolcissimo Chorizo, bassottino invalido con due ruote a posto delle zampette posteriori: irresistibile, suscita tenerezza a causa delle sue difficoltà eppure mette di buonumore solo a vederlo scodinzolare e sentire il cigolio simpatico che lo preannuncia.
L’irrinunciabile fascino delle cose spezzate.