Finito.
Avventura emotivamente molto efficace, nel solco delle avventure dinamiche e delle avventure cinematiche migliori racconta ed emoziona grazie a un gameplay intelligente, misurato e funzionale.
I padri putativi sono tutti lì, limpidi, saccheggiati alla bisogna e talvolta citati con deferenza: a partire da Another World passando dalle opere di Ueda o quelle Playdead e chissà quante altre che non ho colto / non conosco.
La scelta di far interpretare al giocatore un gatto è tanto semplice quanto azzeccata: non si tratta di proporre un simulatore di vita felina, quanto di stravolgere la prospettiva – anche letteralmente, con l’abbassamento dell’inquadratura che ingigantisce e rende più evocativo il mondo di gioco e i personaggi che lo abitano – su una realtà in cui l’umano, ma anche l’organico in genere non sono più.
È un artificio che funziona proprio nel permettere al giocatore di sentirsi ancora vivente, più vicino all’umano rispetto a un robot, ma senza esserlo mai davvero. Pietra fondante di quel sentimento nostalgico che permea il racconto, e della dialettica contraddittoria che si instaura con gli altri abitanti di quel mondo, fredde macchine ma anche bambini perduti nella loro isola che non c’è.
In questo gioco di rimandi e di ruoli, il nostro randagio è un gatto che fa cose a metà tra il felino e l’umano (ovvero il tontolone col pad in mano dall’altra parte dello schermo) ed è proprio quello il suo motivo d’essere.
Mi ha ricordato per certi versi quel piccolo capolavoro dimenticato di Chibi Robo (Game Cube, 2006): lì interpreti un piccolo robot dalle capacità limitate, ma sostanziali nel risolvere i piccoli grandi drammi di una famiglia umana. A ruoli uomo-macchina invertiti, il senso è simile.
Qua e là spuntano farraginosità varie, alcuni inciampi di ritmo, qualche bruttura grafica non all’altezza della cura complessiva, qualche incongruenza e rottura della sospensione dell’incredulità, da ascriversi perlopiù alla sua natura ibrida tra avventura dinamica e avventura grafica. Non è un gioco pulito al 100%, e concentrandosi su questi limiti saltuari il castello di carte può crollare facilmente: sta al giocatore accettare il patto che il gioco gli propone, godendosi la sua forza espressiva senza pretendere la perfezione formale.
P.S. un grazie ad Armandyno che mi ha spronato a vincere la pigrizia cronica e buttare giù questi pensieri.