L’Inferno di Topolino, edizione deluxe.
Quest’anno cadono i 700 anni dalla morte di Dante, e come poteva l’avida Disney nostrana, sempre volenterosa di spremere qualche eurino in più alle generazioni di collezionisti che ha coltivato nel ventesimo secolo, esimersi dallo sfruttare al massimo l’occasione? Perché, come si sa, una settantina di anni fa, la prima storia di Topolino completamente made in Italy pubblicata su quel
Topolino formato libretto che ancora oggi esce in edicola, fu proprio questa Grande Parodia dell’Inferno. 70 anni contro 700; ma
L’Inferno di Topolino, da monumento storico della Nona Arte che è, ha subìto in questo tempo altrettanti e altrettali rimaneggiamenti e “vulgate” del suo originale,
mutatis mutandis. Per vecchia che sia, è una storia importante e che piace, e pur di ficcarla in albi dalla varia gabbia e foliazione, nel corso dei decenni è stata rimontata nei modi più beceri, tagliando, spostando, ridisegnando e censurando rime e vignette.
Quest’edizione deluxe si propone allora un’operazione di restauro mai vista prima. La storia è stata riportata alla gabbia con cui apparve per la prima volta sul
Topolino libretto: non è la prima ristampa a offrirle questo trattamento ma, come dicevo sopra, le edizioni che l’hanno proposta così sono una minoranza. Aprite un’edizione a caso dell’
Inferno, e ci sono 5 probabilità su 6 che vi imbattiate in una versione ritoccata in qualche misura. Qui invece è anche stata rispettata la successione a puntate originale di
Topolino nn. 7-12, perciò all’inizio di ogni puntata c’è, in alto a sinistra, l’iconica vignettina con Topolino-Dante, rimossa dalle riedizioni che pubblicano la storia come se fosse un unicum, sostituendola con pezzi di immagine disegnati a posteriori.
Per di più, la storia è stata completamente ricolorata. Ora, invece della semplice quadricromia e dell’alternanza di pagine a colori e in bianco e nero, troviamo una poderosa colorazione digitale che non solo dà al tutto un’atmosfera veramente “infernale” al posto di quella da Silly Symphony disneyana delle origini, ma aggiunge anche dettagli ad alcuni sfondi, talvolta donando alle immagini un’intensità inimmaginabile in passato, come nella bellissima vignetta di Ezechiele Lupo sbranato dalle galline (sì, è una storia Disney).
Il lavoro, per quanto immane e per lo più splendido, non mi ha soddisfatto al 100%. La tinta complessiva scurisce davvero troppo alcune vignette, e soprattutto non convince la modifica al colore della tunica di Pippo-Virgilio, che in origine era di un bel verde speranza che contrastava benissimo col rosso di Topolino e con l’atmosfera infuocata generale, ed è ora di un bianco carità dalla tinta panna che non spicca altrettanto bene.
Confrontando con altre edizioni della storia che possiedo, le differenze sono macroscopiche. Qui si sono giustamente eliminate tutte le censure accumulatesi nel corso degli anni (alcune delle quali davvero egregie), ma è soprattutto la differenza nelle immagini a fare a pugni con i ricordi di chi per la prima volta lesse la storia in versione modificata. Vieni a scoprire come gran parte delle vignette furono allargate, disegnando ex novo sfondi, personaggi e facce (di Cicerone, in origine, si vedeva solo il fondoschiena bersagliato dagli scolari); come le celebri terzine di Guido Martina fossero state riletterate per riposizionarle dove meglio conveniva, di volta in volta, al formato della ristampa; di come intere vignette fossero state ritagliate da altre, più ampie, che le contenevano, e spostate in uno spazio a sé, costringendo a inserire delle frecce per comprenderne il senso di lettura. In non piccola parte, è come rileggere l’
Inferno per la prima volta; poco importa che, fondamentalmente, la storia sia la stessa, dal momento che le censure non furono poi molte, e che le vignette rimosse non aggiungessero tantissimo all’atmosfera generale.
Sulla storia vera e propria, che dire che l’appassionato non sappia già? Avrà 72 anni, ma è una genialata. Anzi, in realtà ne ha 73: i (troppo pochi) editoriali alla fine del volume ci spiegano come l’opera fosse stata progettata per comparire nel 1948 sul
Topolino giornale, ma fu poi rinviata e destinata al
Topolino libretto che esordì l’anno successivo, costringendo a un lavoro di taglio e rimontaggio delle vignette già disegnate. Ne consegue che una buona parte dell’
Inferno pubblicato nel 1949-50 non era già più la storia progettata in origine dagli autori, rendendone il recupero filologico ancor più interessante.
A parte questo, si diceva,
l’Inferno di Topolino è una storia geniale. La commistione di immagini e balloon con le terzine di endecasillabi, che solo un vero professore come Guido Martina avrebbe saputo produrre così bene, è qualcosa che forse non parve troppo rivoluzionario nell’Italia del 1949, che aveva certamente ancora fresco il ricordo dei fumetti in rima pubblicati sui quotidiani fino ad anni Trenta inoltrati; ma è qualcosa che sarebbe stato impensabile solo dieci anni dopo, figuriamoci oggi. Per non parlare delle immagini e delle tematiche affrontate; per quanto sia già presente un certo grado di quell’edulcorazione dei contenuti da editoria per ragazzi di cui Disney sarebbe divenuta l’emblema negli anni a venire, resta il fatto che
L’Inferno di Topolino offre qualcosa che già negli anni Novanta avrebbe fatto sfilare le associazioni dei genitori in piazza con torce e forconi e avrebbe mandato a lunghe nozze i media. Cerbero che mastica gli arti dei dannati, il professore che “dilaniavasi da solo / a unghiate, e si mangiava le frattaglia”, Ezechiele Lupo che rimane scheletrito quando uno dei Tre Porcellini gli esplode letteralmente in faccia, sono solo alcune delle efferatezze grafiche che costellano l’opera, mentre le terzine in calce prendono per i fondelli il tramvai affollato da scoppiare, i ciclisti che fanno il cacchio che gli pare e nessuno li multa, i fiammiferi incombustibili del Monopolio, le vincite alla Sisal che ti tassano più di quanto guadagni, il parco di Milano sozzo e trascurato. Ti si apre una finestra sulla storia, ti rendi conto che si stava già peggio quando si stava meglio, ti ricorda che le magagne che credevi esclusive della “civiltà moderna” non sono qui da ieri e nemmeno da ieri l’altro. E trovi anche la graffiantissima battuta sulle “donne che servono a qualcosa”, tagliata con l’accetta in quasi tutte le riedizioni, a costo di eliminare un’intera tavola.
I disegni di Angelo Bioletto, per quanto semplici, sono straordinari, se andiamo a confrontarli con ciò che apparve su
Topolino fino alla seconda metà degli anni Cinquanta, quando finalmente Carpi, Scarpa e Bottaro portarono una nuova maturità grafica al settimanale. È chiara l’ispirazione ai modelli di Gottfredson e Taliaferro e delle Silly Symphonies disneyane, ma c’è una certa originalità e sensibilità tutta italiana, un gusto dell’inquadratura e un senso delle proporzioni che si pone al di sopra di molta produzione precedente e successiva. E pensare che l’artista dichiarò di non amare Disney, e di aver svolto le sue sole 3 collaborazioni disneyane controvoglia. Fortuna che l’artista in lui andò oltre le idiosincrasie personali, perché questa storia, come tante altre, non funzionerebbe altrettanto bene senza l’efficacissimo comparto artistico che ha.
Che dire, ancora, del volume? Che magari non è l’edizione definitiva, perché ci sarà sempre chi preferisce la colorazione originale e l’alternanza di pagine a colori e in bianco e nero, più “filologica”; e perché gli editoriali e gli approfondimenti sono davvero troppo pochi per un’edizione come questa, che costa nuova tra i 75 e i 79€ ed è solo destinata a impreziosirsi in futuro (esiste un’edizione da 25€ per i non collezionisti).
Che è enorme, misurando 30x39cm, cifre che che nella mente non creano l’effetto dell’oggetto reale una volta che lo tiri fuori dal pacco e ti chiedi dove cavolo metterlo nella libreria.
Che la copertina di Fabio Celoni è talmente bella da commuoversi, ma è sacrificata da una fascettona nera di tela che si mangia il 40% dell’immagine.
Che la carta è stupenda.
Che, dopo aver cliccato “Acquista”, pensavo di aver fatto una cazzata, e invece sono proprio contento di averlo comprato.