50 ore dopo l’inizio Control s’è arreso con un platino tutto sommato facile.
A poteri fermi quello che ne ricavo è la sensazione di un’opera ambiziosa e maestosa in cui i diversi aspetti si sono rivoltati l’uno contro l’altro a creare una singolarità interessante e controversa allo stesso tempo.
Per me il punto di forza dell’intero progetto è l’allestimento del tutto. Tecnicamente Control utilizza lo stesso fotorealismo di Death Stranding e lo applica a un’ambientazione interna con dovizia di particolari e pletora di effettistica. La fisica, volutamente esagerata nella reazione a catena e spettacolare per possibilità di interazione, è lo strumento attraverso cui Control recupera un pallino della tridimensionalità che da qualche tempo a questa parte era decisamente passato in subordine, soprattutto dopo gli esperimenti dello scorso decennio. Ma la squisita fattura non è solo nei freddi numeri ma anche artistica. Non so quanto Control sia originale nelle sue ispirazioni ma il risultato è mirabile, soprattutto nella sua coerenza allucinata. La Oldest House è un luogo immaginifico che fonde astrattismo geometrico e suggestioni psicologiche. Il cromatismo dominante è freddo, metallico, respingente e ragionevolmente alieno, proprio a ricreare quel senso di distacco umano e materiale e la sensazione di trovarsi un “assolutamente altro”.
Scale di grigi, azzurri, un nero seppia inchiostrante, il bianco abbacinante delle zone illuminate, tutto è così stagliato e netto dal punto di vista dei colori che non si può fare a meno di pensare che ogni ambientazione sia stata concepita in modo del tutto pensato. Risultato impreziosito, come si diceva, da una direzione artistica di stampo prettamente occidentale pensata a creare una sorta di realismo ipotetico in cui elementi tradizionali e consueti vengano poi allestiti in una composizione stilisticamente rilevante. È una cosa che nel gioco capita spesso, ossia lo stupore dettato da linee, verticalità, volumi, spazi e alternanza di chiaro/scuso. Entrare nel Panopticon e alzare lo sguardo significa essere trasportati in un tunnel di linee geometriche verticali e la sospensione della prospettiva. Il Labirinto abbandona totalmente la sanità e restituisce la forma dell’astrusità. E tutto questo sulla mia Ps4 Pro, immagino su PC ben dotati.
Il delirio è davvero un po’ il tema centrale di Control. Narrativamente si potrebbe considerare attraverso due livelli distinti. Il primo, quello fallimentare per me, è la tipologia di storia che necessita di essere ricostruita attraverso l’incontro di diverse fonti. L’epifania allucinata della protagonista, gli inserti cinematografici e illustrativi che interrompono l’azione in modo piuttosto frequente. L’ispirazione è molteplice, da una parte Lynch, dall’altra la filosofia estetica di alcuni recenti film di fantascienza (come Arrival e Under The Skin), con qualche altra citazione da graphic novel. I personaggi non sono reali ma simbolici, archetipi del percorso interno della protagonista. E caspita, il mistero deve essere risolto.
Il problema è la parte scritta e i documenti. Tanti. Troppi. Duecento collezionabili che occorrono in maniera asfissiante e che, nell’intenzione dei programmatori, avrebbero dovuto incuriosire il giocatore per ricostruire i contorni di questa vicenda metafisica. E quindi pagine e pagine da leggere a video, insostenibile ma anche necessario per capire cosa succede. Purtroppo è la tendenza di un certo tipo di videogioco, il ricordo eccessivo ad altre forme comunicative per soddisfare il bisogno di informazioni e bilanciare una storia essenzialmente segnica. Che poi sia interessante o meno dipende dal giocatore. Che sia esagerato numericamente è davvero oggettivo. Fossero cose secondarie poi, è molto più probabile capire Control leggendo che giocandoci, almeno per quel che concerne l’ambito della vicenda.
Il secondo livello narrativo, invece, per me è quello più riuscito. Si tratta di una dimensione meramente visiva, la costruzione della Oldest House è concepita per far emergere l’inconsueto dalla discorsività giornaliera. Saloni e stanze di uffici sempre uguali come peccato veniale, è il prezzo da pagare per i giochi ad ambientazione chiusa. In mezzo a tutto questo, spezzoni di assurdità assortite dove rinvenire il destino delle figure a video. Questo aspetto è più convincente e permette di illustrare una delle più grandi qualità di Control, ossia l’organizzazione e la gestione della mappa.
Probabilmente, essendo arrivato tardi e dopo qualche correttivo, la vituperata mappa di questo gioco a me è apparsa come uno strumento in cui viene segnala la meta in maniera precisa e poi sta al giocatore arrivarci. Si indica il piano e si suggerisce la zona/stanza precisa, nulla che ingeneri particolare ambiguità e difficoltà. Poi dove e come arrivarci è prerogativa del giocatore e questa, a mio modo di vedere, è una qualità niente male. Controllare la mappa con gli accessi, leggere le informazioni a video come insegne e scritte, ragionare sulla possibilità di raggiungere porte, ingressi, passerelle, balconi grazie ai poteri e alla fisica. Il tutto ben differenziato dai piani e dai livelli progressivi di accesso. Non so, a me sembra recuperare quantomeno decentemente la progressione sfidante di giochi di molti anni, con quel pizzico di filosofia metroidvania che solletica il giocatore a vendicarsi di tutte le vie che gli sono state precluse fino all’ottenimento di un nuovo potere. Anche le missioni secondarie sono davvero chiare per obiettivi e mappatura, per cui trovo che l’Oldest House si distingua bene per ideazione, implementazione e costruzione.
La cifra del divertimento di Control è davvero contenuta nel suo titolo. Il controllo che il giocatore incrementa nei confronti dell’ambiente parte dal possesso bellico della fisica attraverso il “lancio”, per arrivare alla navigazione espansa grazie alla “spinta” per trionfare definitivamente con la levitazione. Ottenuta questa, la mappa può essere rivista e rivisitata con una nuova consapevolezza, quella del dominio totale. Da shooter in terza persona fino al gioco esplorativo emergente in cui, forse, questo secondo aspetto sostanzia e nobilita il pacchetto. Questo indispettirà qualcuno, ma il “Control sparatutto” è un’opera minore rispetto al “Control esplorativo” e questo si deve ad alcune scelte non molto felici degli sviluppatori.
Primo, il grado di sfida davvero basso. I nemici comuni che s’incontrano nel corso del gioco sono pochi vari, scarsamente diversificati e molto semplici da liquidare. L’albero delle abilità, a prescindere dalle caratteristiche si potenziano, rende Jesse una macchina da guerra senza particolati impedimenti. Se poi si decide di investire sull’abilità di lancio sin dalle prime ore l’abbattimento della difficoltà è proprio verticale. Secondo, l’intelligenza artificiale. L’esperienza insegna che i videogiochi non sono ancora pronti per esperimenti adattativi o altre fantasticherie, di solito la forza bruta, stolida e basata sulla prestazione esecutiva della macchina, sia da preferire. Purtroppo queste presenze diafane si muovono qua e là come bersagli inermi alla mercé della capacità offensiva di Jesse e il quadro è piuttosto desolante. Terzo, non esiste una vera e propria crescita ludica dei nemici, così come il gioco non si preoccupa di incentivare il giocatore attraverso scontri concepiti in modo diverso oppure un game design progressivo, come quello che capita in tanti giochi dello stesso genere. La fama di Control come ottimo sparatutto è per me immeritata e amplificata nei racconti dei giocatori. Diverso è dire che non diverta ma questo, per quanto mi riguarda, è frutto dello spettacolo allestito e dalla soddisfazione epidermica di un contesto che esplode, si modifica, reagisce alle sollecitazioni, lascia traccia dell’operato di nemici e giocatore e infine coinvolge in senso pirotecnico. Quindi non un bel gioco ma un gioco bello da vivere.
In realtà si possono mettere insieme tutte queste cose per identificare la poetica di questo Control, piuttosto controversa, come spesso capita ai giochi interessanti. Non ha un grande gameplay ma cattura. Non è semplice da attraversare ma stuzzica la sfida. Non si capisce molto bene quello a cui si assiste ma è tutto talmente intrigante che si vuole vedere dove vada a parare. Chi lo incensa è davvero troppo generoso con aspetti traballanti e poco sviluppati, tipicamente la sua vocazione da sparatutto tridimensionale, raffazzonata. Eppure, coloro che lo criticano, non possono negare che il tutto sia coinvolgente, pirotecnico, gratificante, gustoso. Anche se non si capisce nulla, anche se poteva essere migliore in tutto quello che non è audio/visivo.
Il destino di alcuni giochi: li puoi trovare nella top 3 dei titoli migliori dell’anno e contemporaneamente tra le delusioni più cocenti. E la cosa bella che hanno tutti ragione.