Non ho moltissima esperienza diretta di giochi di ruolo da tavolo, se non per osmosi culturale, ma Dragon’s Dogma 2 li richiama in maniera prorompente, e credo che molte sue idiosincrasie e sistemi si specchino in ciò.
Il modo in cui si decide che party selezionare ogni volta che si esce per una spedizione, gli incontri che si hanno lungo il percorso, cave segrete da esplorare che ci portano via dal sentiero battuto, quello scrigno che sembra inaccessibile ma che si riesce poi a raggiungere sfruttando qualche particolare elemento del paesaggio o qualche abilità che magari non ci si aspettava di poter utilizzare in quel modo.
Ed il Master ogni tanto butta lì un troll o un grifone da affrontare, o un drago dal quale scappare, il tutto mentre infarcisce il viaggio di scorci affascinanti e situazioni interessanti, in grado di creare aneddoti a non finire.
E visto che è un bravo Master, permette ai suoi giocatori di sbizzarrirsi.
Vuoi uccidere un nemico lanciandolo da una scogliera? Perché no, basta che tu abbia la forza di farlo.
Vuoi lanciare una magia di ghiaccio e poi usare i blocchi di ghiaccio creatisi come proiettili da lanciare contro il nemico? Datti alla pazza gioia.
Vuoi seccare un boss in un colpo solo con il Super Mulinello Supremo di Lame Rotanti che hai appena sbloccato? Sbizzarisciti.
E’ un’esperienza onestamente meravigliosa. Dragon’s Dogma è un sandbox arcade come ne esistono ben pochi, in grado di accomodare quasi ogni stile preferito dal giocatore.
E’ un generatore di storie delizioso, come ben pochi giochi riescono.
Il motivo principale per il quale ai miei occhi non tocca le vette toccate dal prequel è secondo me dato dall’incapacità di scalare proporzionalmente questi punti di forza ad una mappa che è tre o quattro più grande, e da scelte di design che mi lasciano alquanto perplesso.
Per tornare alla metafora di prima, il Game Master di DDII non è proprio il più immaginifico che sia mai esistito, e la ripetizione proterva di situazioni ed incontri ne è triste segno, non aiutato in ciò da un quest design che non sembra accorgersi dei suoi punti deboli.
Recarsi la prima volta nel villaggio degli Elfi grazie ad un suggerimento di un NPC è un esperienza meravigliosa, sia in termini di gameplay che di puro senso della scoperta.
Tornarci la seconda volta tutto sommato idem, poi dalla terza in poi ci si chiede perché diamine il carro non arrivi fin lì, e perché nella migliore delle ipotesi devo spendere 20.000 ori per andare e tornare se voglio evitare la solita trita e ritrita scampagnata.
Quello tra fast-travel e design open world è uno scontro filosofico che probabilmente non cesserà mai di esserci, ma DDII è uno di quelli che probabilmente lo declina peggio.
Esplorare è certamente interessante, spesso appassionante, almeno finché non ci si stufa della ripetizione di nemici e del fatto che la stragrande maggioranza dei dungeons è costituita da cave sostanzialmente simili e dalle tre tipologie di nemici, ma fare e rifare lo stesso percorso non lo è affatto, e almeno nel mio caso finisce nello sprintare ignorando i nemici, ostacolati in ciò dalla bizzarra scelta di non rendere la stamina infinita quando non si è combattimento.
Non pretendo un punto fast travel ogni cento metri, ma almeno far sì che il carro raggiungesse i maggiori punti di interesse una volta che il giocatore li avesse scoperti, e non abbia letteralmente 3 possibili percorsi, si.
Dark Arisen aveva un problema simili, ma lo aveva risolto rendendo i ferrystone infiniti e affidando al giocatore la possibilità la possibilità di piazzare in giro e se ne necessario spostare un numero finito di portcrystal.
Non la soluzione più elegante, ma il sequel è un’involuzione da quasi ogni punto di vista.
Mi viene da pensare che Itsuno abbia sopravalutato quanto il giocatore medio avrebbe apprezzato il rifare continuamente le stesse strade.
Nel mio caso ha significato scarpinare in maniera eccessiva per metà gioco, e poi appena ho iniziato ad avere abbastanza oro per permettermelo, spammare ferrystones per andare e tornare.
Anche la scarsa varietà di nemici è peggiorata dalla scelta di avere un open-world molto più grande.
Il primo non aveva certo più tipologie di nemici, anche se sospetto non ne avesse molti meno, ma la maggiore densità della mappa rendeva il problema molto meno evidente.
L’altro macro-problema è che DDII ha uno scarsissimo rispetto del tempo del giocatore, anche in ambiti che Dark Arisen aveva risolto.
Vuoi cambiare vocazione? Dovrai poi recarti da un locandiere o in una casa che si possiede per pescare l’equipaggiamento adeguato.
Vuoi potenziare le armi da un certo personaggio, spero che ti sia ricordato di portarti dietro i materiali, nonostante nessun fabbro funzioni così.
Vuoi prendere il carro diretto a Harve? 9 volte su dieci il carro non può partire a quell’ora, e devi interagire con un palo là vicino per qualche motivo per far passare il tempo.
Taccio della quantità industriali di quests e interazioni con un NPC che richiedono di tornare dopo uno o più giorni, il che significa dover dormire o fare uso di una vicina panca perdendo qualche minuto per nessun reale beneficio.
Ti sei fatto fatto amico qualche NPC? Perfetto, ora ti perseguiteranno ogni volte che vorrai andare a riposare chiedendoti di scortarli in qualche punto della mappa dove sei già stato dieci volte, per nessun buon motivo, e per nessuna ricompensa degna di tale perdita di tempio.
Non capisco onestamente queste scelte, se non per un maldestro tentativo di realismo.
Lato combattimento, DDII è una bestia strana. Mantiene la qualità e varietà arcade del suo predecessore, migliorandole in pochi punti, ma li condisce con scelte maldestre che non mi spiego.
Da un lato limita il giocatore in maniera molto discutibile. Poter equipaggiare solamente quattro abilità di fronte a Vocazioni che spesso e volentieri ne hanno una ventina limita artificiosamente le stesse, e mal si sposa con la filosofia giocosa del titolo.
Capisco le limitazioni nate dal sistema di combattimento, ma sono convinto che qualcosa di più si poteva fare sfruttando in maniera più decisa i dorsali come modificatori, o alla peggio permettendo di cambiate le abilità equipaggiate dal menù, senza limitazioni.
Si è molto detto della facilità bruta del gioco e non voglio battere sul punto. Ma è evidente che tale scelta cozzi con i sistemi del gioco, con buona parte delle vocazioni che dispongono di una o più abilità dalla potenza onestamente esagerata.
Cozza anche con la filosofia stessa del gioco, rendendo spesso l’esplorazione non dico inutile, ma abbastanza fine a se stessa.
Lato narrativo, Dragon’s Dogma II è poco più che sufficiente. Il gioco inizia come una copia carbone del primo, sia nella struttura che nella natura delle missioni e dei risvolti narrativi. Il che non è necessariamente un male, sopratutto quando lascia intravedere potenzialmente piacevoli incursioni nel geopolitico, tranne poi in maniera abbastanza brusca virare verso il finale e su considerazioni cosmologiche che fino a quel momento non erano affatto accennate.
Perché? E’ la domanda che continuo a pormi.
Ci sono interi filoni narrativi che vengono abbandonati nella loro totalità, personaggi precedentemente centrali che vengono lasciati da parte come un fazzoletto usato. Altri che sembrano variare motivazioni e personalità da un momento all’altro.
Quello di Dragon’s Dogma è un mondo così ricco di suggestioni e di tematiche possibili, forieri di infinite potenzialità. Eppure, sono riusciti in due giochi a ricalcare sostanzialmente la stessa trama per il 90%. E quando non lo fanno è per buttarsi in voli pindarici privi di logica.
Sembrano che abbiano creato un mondo potenzialmente ricco ed appassionante, ma non sappiano cosa
farci.
Ci sono slices of life estremamente interessanti, ma sono episodici e frammentari, un vaso rotto del quale il giocatore può ammirare la maestria dei singoli cocci, mentre anela un giorno ad ammirare come potrebbe essere il vaso completo.
Le subquests sono… altalenanti. Da un lato ci sono suggestioni di una non indifferente varietà nel modo in cui le si possono risolvere, cosa che però va spesso cozzare con il jank o la scarsa raffinatezza o affidabilità dei sistemi che reggono l’impalcatura dell’opera.
Spesso le si risolve in un determinato modo, ma non è mai chiaro se è perché il gioco contempli tale soluzione o per via di qualche meccanica che non si comporta come dovrebbe.
Il post game
Ammiro la faccia tosta di Capcom nel dichiarare che “The true Dragon’s Dogma II starts here”, ma non sono sicuro che il risultato giustifichi le premesse.
Almeno nel mio caso, ero abbastanza esausto quando vi sono arrivato, e l’ultima cosa di cui avevo voglia era di fare grinding per chissà quante ore per potenziarmi ulteriormente per fare… cosa?
Questo non significa che qualcuno non lo possa trovare piacevole, ma nell’assenza di qualche super dungeons che giustifichi tale investimento non credo che il gioco valga la candela.
Mi rendo conto di aver inanellato una litania di punti negativi, ma non significa che il gioco non mi sia piaciuto, anzi.
C’è ancora quella gioia fanciullesca e quella sete di avventura che accompagnava le mie scorribande a Gransys, e c’è molto da amare in Dragon’s Dogma II, ma non è quello che mi aspettavo e che mi sarei aspettato dal team di sviluppo dopo l’esperienza del prequel.
Hanno in sostanza preso quanto di buono vi era nel primo, e lo hanno spalmato su un open world grande il triplo o più e su una durata decisamente più lunga. Questo rende immediatamente apparenti i limiti della formula e la classica coperta si rivela poco più che un tovagliolo, intessuta con una trama poco più che funzionale, e che tradisce la qualità dell’ambientazione e delle sua mitologia.
A sto punto spero che Kento Kinoshita abbia l’occasione di lavorare in maniera autonoma su un ipotetico Dark Arisen II, e che riesca nuovamente a creare qualcosa che migliori così tanto l’opera originale da renderla obsoleta.
L’ossatura c’è già tutta. Serve solo una mano ferma che aggiunga la carne giusta al posto giusto.