Finito, 30 ore di gioco, livello 66 ad Apocalittico e bug ai trofei che per adesso mi impedisce il platino.
Darksiders 3 è, di fatto, il seguito spirituale del primo capitolo. Rispetto ai fasti di produzioni come
RDR2, Spider-Man, Odyssey e roba di questo periodo,
D3 si identifica fieramente quale B-game di lusso, per cui bisogna lasciare spazio ad un’approssimazione tecnica che non si vedeva da tempo. Sulla carta le scelte a me sembrano adeguate e vincenti: struttura alla Metroid/Soulslike, progressione fintamente non lineare subordinata all’equip e ai poteri, grande attenzione alla componente arcade e boss come da tradizione, fatti di pattern e memorizzazione. Gli elementi ricorsivi del mondo di
Darksiders ci sono tutti, il lavoro citazionista e di incastro con i titoli precedenti è notevole e senz’altro apprezzabile.
D3 porta con sé la gradevolissima sensazione di un gioco che cresce, in complessità, in qualità, in dettaglio con un level design che non ha nulla da invidiare alla produzione From, anzi…Arriva un momento, sul finire, in cui tutto si raccorda in modo imprevedibile, sorprendente, quasi elegante. In modo nobile e nostalgico, a cui il videogioco moderno ha rinunciato e che è un piacere ritrovare in questa forma, una continua citazione dei classici tridimensionali esplorativi del lustro 1995-2000 come
Soul Reaver e tanti altri. E se le prime ambientazioni sono caratterizzate da un respiro limitato e prevalentemente sotterraneo fatto di cunicoli e caverne, con il procedere del gioco arriva qualche brano di apocalittica visione che allarga un po’ la prospettiva. Stanzoni si alternano a corridoi che lasciano posto a zone di passaggio per finire in spiazzi in cui si intravedono gli effetti della fine del mondo in svariati modi. Tutto è impeccabile dal punto di vista strettamente funzionale e gratificante in termini di risoluzione. Non bisogna ingannarsi però,
D3 rimane un titolo fieramente ctonio nel suo dipanarsi. Scoprire ogni suo segreto è stata una sfida non banale che consiglio a tutti, un modo molto divertente di nobilitare il titolo. L'enigmistica ambientale è decente, per quanto nulla di particolamente elaborato.
Se parliamo di narrazione, si tratta sempre del classico minestrone di fine del mondo in cui nemici e amici si confondono e con essi anche il giocatore. Francamente ho assistito a tutto con uno spassionato menefreghismo. L’idea dei 7 vizi capitali è ottima, sia in chiave concettuale che stilistica. Sono nemici piuttosto ricercati nell’estetica (sempre ancorata al modello fantasy occidentale, per cui se non si gradisce attenzione…), in particolare Lussuria, Superbia e Accidia mi sono particolarmente piaciuti per la caratterizzazione peculiare. Il resto dei nemici è inquadrato nel fantasy dark e guerriero con pochi guizzi di originalità. Il personaggio di Furia è ambivalente: da una parte è quello che ci si aspetterebbe, un Cavaliere dell’Apocalisse al femminile, spietata e risoluta. Dall’altra, la volontà di tridimensionalizzare un po’ il personaggio la rende protagonista di qualche passaggio troppo psicologico e umano che francamente non ho gradito. Ma non è un problema, dal punto di vista narrativo intanto si può mettere qualche paletto e vedere l’aggancio al quarto capitolo.
Il sistema di combattimento è pesante nell’impatto e piuttosto ricco di armi e opzioni. Giocato al giusto livello di difficoltà anche piuttosto sfidante (ad Apocalittico proprio difficile, soprattutto ai boss) L’impianto in sé è ben pensato e variegato, ma il gioco ammette una certe sporcizia esecutiva per cui si compensa con il recupero costante di energia in itinere. Sembra un modo un po’ artificioso di rendere costante la tensione, così come l’aggressività eccessiva dei nemici. All’inizio, soprattutto,si esige una manualità da vecchio stampo per compensare una telecamera assassina (si può tranquillamente togliere un punto alla valutazione finale per questo) che riporta alla mente le bestemmie di
Ninja Gaiden e il gioco ne soffre. Per fortuna (ed è parte della gratificazione del titolo) ogni potenziamento dell’arsenale apre a nuove prospettive offensive e di opposizione all’ambiente. Dai Souls mutua la struttura “a falò” con alcune facilitazioni. Prima di tutto si possono conservare le anime recuperate ai punti di salvataggio. Secondo (e graditissimo) anche in questo caso rimangono i depositi di anime nel posto in cui si muore e non spariscono mai, anche dopo morti successive, per cui è possibile recuperare tutto quello che si è perso in giro. Vista la particolare natura del titolo, come capita sovente in giochi di questo tipo, la deambulazione porta a incrementare le proprie risorse in modo poco graduale e questo ha ripercussioni immediate sul gameplay. Secondariamente, lo scontro con i boss si annacquano progressivamente a fronte della potenza eccessiva del cosiddetto “witch time” di bayonettiana memoria, vero cardine del combat system di cui
D3 abusa. Non tanto da non rendere divertente il gioco oppure da nullificare tutto, però immagino che a un livello di difficoltà inferiore al più alto un giocatore esperto o comunque abituato ad action e Souls possa tranquillamente rendere il tutto molto automatico.
Per quanto il mio giudizio sia infine positivo, è necessario specificare ancora una volta la dimensione “minore” del titolo e il suo essere già miracoloso in quanto uscito. Piacevole, un gioco di circa 20 anni fa come concezione, strutturato in modo eccellente e più discutibile sul piano ludico. In un mondo fatto di colossi del divertimento dalla qualità ludica spesso assente,
D3 si mostra per quello che è, un prodotto di artigianato e di passione imperfetto ma sincero, capace di regalare al giocatore consapevole sprazzi di divertimento antico, sempre negoziando con i suoi evidenti limiti.