Incredibilmente paradigmatico, poco da aggiungere. Ma non per forza nel senso di “
manuale del vg”, come qualsiasi cosa
Hollow Knight è bello ma perfettibile. E’ paradigmatico poiché esponente semplice e glorioso di cosa sia un videogioco, di quali siano le caratteristiche che deve avere e di come si proponga come esempio di arte videoludica non ibridata da velleità narrative e concessioni cinematografiche.
La qualità più adamantina di
HK consiste proprio nell’aver rinunciato a qualsiasi forma di ammortizzatore ludico che, da diversi anni a questa parte, non permette al videogiocatore di sviluppare abilità diverse dalla semplice acquisizione di problemi impostati con risoluzione standard. Si tratta, invece, di un gioco circolarmente perfetto nel predisporre una sfida in cui interloquiscono modalità e meccaniche ludiche interconnesse e interdipendenti.
L’esplorazione ha un ruolo a carattere conoscitivo, per cui non è assolutamente garantita la fattibilità in quel momento e in quella forma. Al giocatore è data la possibilità di perdersi, da cui promana l’orientarsi e necessariamente il risolvere quella situazione ricorrendo ad una buona dose di pensiero laterale.
HK è un gioco di riflessione, proprio nel senso stretto del termine. Ma è una riflessione che si innesta nell’osservazione del contesto, in cui suggerimenti e divieti sono ad appannaggio della peculiarità strategica del giocatore. Gli elementi sono tutti presenti, a volte sono criptici ma nel suo normale fluire
HK si presenta come corretto e leale. Duro forse, intransigente a volte, ma nella mia esperienza, tutte le volte in cui mi sono trovato a confliggere con problemi insormontabili, la colpa era da attribuirsi alla mia scarsa capacità di giudizio rispetto alle alternative e alle risorse. Inoltre, quando il titolo si abbandona a digressioni non necessarie, la sfida si rende impegnativa ed difficile, permettendo al videogiocatore smaliziato di cimentarsi in qualcosa di degno.
Leggendo indietro il topic mi sono imbattuto nell’ottima analisi di
@EGO che, sostanzialmente, dice tutte cose verissime e riscontrabili nel gioco. Tuttavia credo che per una questione di mera interpretazione dell’esperienza, le criticità che rileva possono in realtà costituire proprio elementi di diversificazione salienti rispetto all’organizzazione media di modello "metroid", già pieno di significative reiterazioni. Girare a vuoto a me appare come parte dell’esperienza. Incaponirsi su una sequenza letale di piattaforme, industriandosi con abilità e mestiere, mi ricorda quel mondo pionieristico del platform di fine anni ’80 in cui nulla era garantito, a parte l’impegno del giocatore. E soprattutto l’idea, un po’ romantica e un po’ antica, da “
press play on the tape” di commodoriana memoria, di un approccio al videogame integrale e totalizzante, con ore e ore a girare per ricavare pochi risultati. I riferimenti videoludici più vicini sono senz’altro
Metroid e
Castlevania SotN ma per chi ha qualche anno in più sulle spalle la mente va a
Sacred Armour of Antiriad, Draconus, Zamzara e anche qualcosa di
Fist II. Per non dire di
Impossible Mission.
Giochi solitari, dilatati nel tempo e nella prassi, con un astrattismo calligrafico atto a sospendere ogni forma di resistenza logica e matura, puro piacere segnico. Più che altro, a riportarmi a quei tempi, è stato il senso di disorientamento e di stupore che sempre di più manca al logorante gaming moderno e che rappresenta la cifra del nostro hobby. Scoprire, procedere alla cieca, avventurarsi, fendere l’oscurità con il pungolo incessante della morbosa curiosità infantile dell’oltre e del prossimo, il limite della conoscenza come ragione in se stessa ricreativa.
Insomma, un piccolo grande classico che ha illuminato questo mio 2018. Da giocare assolutamente.