Ho giocato a
The Silver Case, prima opera di
Goichi Suda, datata 1999, con la software house da lui appena fondata, Grasshopper Manufacture. Come sempre c’è tantissimo da dire. Ma voglio cominciare dicendo che questo gioco mi ha sorpreso (e subito mi rendo conto che l’affermazione in sé non sia affatto sorprendente, trattandosi di un gioco di Suda). Ma quel che voglio dire è che mi aspettavo un’opera molto diversa.
Sarà che noi occidentali abbiamo avuto l’imprinting con
Killer7, perciò immaginavo che lo stile criptico, frammentato, allucinato della narrativa fosse uno stilema dell’autore sin dagli esordi. E naturalmente è in parte così, ed i punti di contatto tra
The Silver Case e il gioco per Gamecube sono parecchi, non solo per tematiche ma anche per molte scelte stilistiche. Solo che per la maggior parte dell’esperienza,
The Silver Case presenta una scrittura, se vogliamo, più tradizionale che si segue perlopiù come si farebbe con altre opere narrative, senza doverne continuamente ricostruire, riassemblare e interpretare i frammenti. Anzi, si può dire che
The Silver Case rappresenta quella cornice interpretativa, caratterizzata da tutte le tematiche care a Suda (e a molti altri autori giapponesi), che avrebbe fatto tanto comodo per cercare di dare un senso a
Killer7 nel 2005. Immagino, quindi, che per il pubblico giapponese il gioco Gamecube sia stato forse meno traumatico, dato che le tematiche di Suda erano già note e poi se le sono ritrovate scucite e rimescolate in
Killer7. Insomma, noi occidentali nel 2005 tale lusso non lo abbiamo avuto.
Per quanto riguarda la scrittura, ci tengo subito a dire che Suda scrive davvero bene. I suoi dialoghi hanno quel quid che li rende davvero interessanti e profondamente umani. E, di nuovo, qui ci troviamo davanti ad una scrittura più tradizionale e lontana rispetto a quella metaforica di
Killer7 o a quella più assurda dei
No More Heroes. Ovviamente, detto questo, nella scrittura non manca quella dose tipicamente orientale di metafore, di capacità di guardare all’essenza delle cose, di carisma, insomma.
Ed il collega di Suda, che ha scritto i capitoli “dispari” del gioco, scrive altrettanto bene se non meglio! Gli eventi del gioco sono infatti visti da due diversi punti di vista e se in quelli principali, scritti da Suda, vengono visti da un protagonista silenzioso (ed inquietante) che funge da avatar per il giocatore, in quelli “secondari” la vicenda viene osservata da un protagonista dotato di una propria personalità, che è scritto davvero bene e riesce ad essere uno dei personaggi più interessanti del gioco e, da quel che ho capito, importante anche nei successivi giochi della serie:
Flower, Sun and Rain e
25th Ward.
Dal punto di vista ludico, dico subito che non sono un grande appassionato di Visual Novel “pure”. Le VN mi piacciono, ma ho giocato sempre titoli che avevano anche una compente ludica particolare, per certi versi invasiva, che donava varietà al ritmo complessivo: penso ai processi o alle esplorazioni di
Ace Attorney o alle escape rooms di
999. Qui l’unico tentativo di gameplay sono dei poco riusciti enigmi matematici all’inizio del gioco. Poi gli autori, evidentemente resisi conto che gli enigmi non erano granché, non ne hanno più inseriti e il gioco richiede solo lettura di testi e spostamenti in prima persona (ai cui controlli macchinosi -che nel remaster potevano essere rivisti, ma non è stato fatto - ci si deve francamente abituare).
Tornando alle tematiche, vediamo un po’ ciò che vi ho trovato, in una sicuramente breve e non esaustiva panoramica:
-in generale, lungo tutta l’avventura c’è un soggiacente tema legato ai rischi di una società neofascista dove la polizia può prevaricare i confini e dove il criminale (o semplicemente chi vive fuori dai limiti sociali) possa essere deumanizzato e eliminato. Ci ho trovato della vibes da
Jin Roh di
Mamoru Oshii, giusto per rendere l'idea.
-c’è anche la tematica della deumanizzazione e oggettificazione delle Idol a ricordare un po’
Perfect Blue di
Satoshi Kon-c’è il tema dei rischi della società digitale e dell’informazione, degli hacker, della violenza - prima verbale e poi violenta e organizzata - frutto della forza del branco digitale e del suo anonimato. Il Giappone d’altra parte a fine anni 90 era 20 anni nel futuro e quindi queste tematiche immagino dovessero far parte del dibattito pubblico. Insomma non erano certo frutto solo della visionarietà di
Hideo Kojima che le avrebbe affrontate profondamente qualche anno dopo con
Metal Gear Solid 2.
-c’è la società distopica che vuole ingegnerizzare a tal punto l’essere umano da avere società perfette e apparentemente sotto controllo (quando alle classi dominanti quella trasgressione impedita al cittadino è invece permessa)
-c’è la società giapponese degli adulti assenti, dei grandi condomini senza rapporti umani e dell’influsso destabilizzante che tutto questo può avere sui bambini.
-c'è un commento alla condizione femminile nella società giapponese
-c’è quella strana e peculiare componente mistica/horror che si sovrappone ad un’opera principalmente di critica politica e sociale. Questo aspetto verrà poi portato all’estremo in
Killer7, dove il piano mistico della vicenda ha pari dignità di quello “terreno”.
-c'è quell'idea dell'avatar del giocatore che rappresenta un po' un "uomo nuovo" e dalle cui azioni comincia una società nuova che non risponde più alle logiche pregresse. Tema che si può ritrovare anche in
Killer7.
Insomma, tanta tanta roba interessante. E molto altro che forse sto dimenticando o che non sono proprio riuscito a cogliere.
Parecchia voglia, quindi, di giocare i suoi seguiti diretti (già in mio possesso
). Anche se il ritmo blando di questa esperienza, unita al poco tempo per giocare e al backlog consistente come non mai (maledetto Switch!), faranno sì che io per ora mi dedichi ad altri giochi dotati di maggiore interattività.