Strider Hiryu
Piombato a ciel sereno nelle sale giochi nel 1989 ed edito da una Capcom che ancora non era stata travolta dal ciclone Street Fighter 2, Strider si impose sulla concorrenza con la sicurezza e la grazia dei veri purosangue. Tanti erano gli aspetti che conferivano a questo arcade il sapore delle cose speciali, ostentando una fiducia nei propri mezzi che solo coloro che sono consci della loro diversità facendone motivo di orgoglio, possono vantare.
In un periodo in cui la maggior parte degli action game era schiava di uno scrolling a senso unico [verticale od orizzontale], il gioco in questione si erigeva a Spartacus videoludico spezzando le catene imposte dai dogmi imperanti nel game-design dell’epoca e facendo apparire antico qualsiasi cabinato lo circondava.
Libertà innanzitutto! sembrava essere il motto di Strider, e allora via con un protagonista dotato di un’agilità inaudita che gli consentiva di saltare e di appendersi ovunque la fantasia del giocatore lo portava. Come se questo non bastasse, il nostro alter ego era dotato di una grazia sbalorditiva, che elevava i movimenti più banali a qualcosa di superiore, attraverso una chiave estetica poco [per nulla] sfruttata prima di allora: lo stile. L’appagamento sensorial/emozionale che investiva i giocatori che si imbattevano in Strider non aveva precedenti: l’originalissimo fascio laser di cui eravamo armati, e attraverso il quale facevamo letteralmente a fette l’esotico bestiario che ci si parava di fronte, era il momento terminale di una giostra delle emozioni che non mostrava segno di cedimento alcuno per tutta la durata dell’esperienza. Ma non finisce qui: il segreto di cotanto videorgasmo stava [anche] altrove, e più precisamente nel level design, il quale in maniera assolutamente coraggiosa ci immergeva in livelli dalla struttura asincrona. Non c’è uno stage di Strider che sia costruito su fondamenta analoghe a quelle degli stage che lo precedono e non c’è uno stage di Strider che si limiti a riproporre per tutta la sua lunghezza le stesse dinamiche: arrampicarsi sulle sporgenze architettoniche di una Mosca futuristica, cavalcare e al tempo stesso distruggere una creatura vermiforme composta da politici [!], correre alla velocità della luce giù per un pendio innevato preparandosi ad affrontare un’enorme gorilla-robot, volteggiare di liana in liana, librarsi nel cielo tra mille esplosioni o ancora perdersi nello spazio…benvenuti sull’Isola che non c’è. Neanche il laser game più costoso incarnava a questi livelli quello che noi videogiocatori dell’epoca avevamo sempre desiderato ma che non avevamo mai osato chiedere: un tour de force di situazioni sempre diverse messe una in fila all’altra senza soluzione di continuità, attraverso un concetto di interattività totalmente nuovo.
Forte del supporto della scheda Capcom System 1, il reparto grafico di questo gioco era qualcosa di inaudito: sprite grandi, talvolta enormi, finemente dettagliati ed animati allo stato dell’arte, si muovevano in scenari dalla spazialità disarmante, lussureggianti nell’abbondanza di particolari e consacrati dagli innumerevoli livelli di parallase. Il tutto era mosso nella più completa fluidità ed arricchito da un uso smodato degli effetti speciali [esplosioni, collassi scenografici and so on]. Il sonoro non era da meno ed oltre ad un set di effetti di lodevole fattura, proponeva un variopinto tappeto musicale in grado di accompagnare degnamente i diversissimi momenti ludici di cui il gioco si componeva. Ma erano le scelte stilistiche a consacrare definitivamente Strider: l’estetica del gioco si appropriava con grande sicumera di influenze disparate e spesso dissonanti [sci-fi, tradizione orientale, sapori da Europa dell’Est, paleontologia, fantapolitica e chi più ne ha più ne metta] e le poneva al servizio di un risultato assolutamente originale, al tempo stesso policromo ma riconoscibilissimo nella sua identità.
Assieme a Forgotten Worlds, Ghouls ‘n Ghosts e al successivo Final Fight, Strider chiudeva in bellezza un’epoca felice per Capcom, la quale di lì a poco sarebbe stata quasi totalmente assorbita dal successo senza precedenti di Street Fighter 2, primo vero spartiacque tra la maniera anni ‘80 e quella anni ’90 di intendere gli arcade . Stupisce che nell’immediato futuro né la stessa casa di Osaka, né la concorrenza abbiano assimilato e riproposto in altra forma le innumerevoli intuizioni di cui il gioco si faceva portavoce: ma forse è proprio questo che ha consentito di conservare quasi immutato il ricordo di questo straordinario coin-op e di portarlo avanti negli anni.
Bisognerà aspettare moltissimo tempo prima di vedere reincarnato lo spirito di questo campione, il quale piuttosto che essere ripreso con onore dai suoi figli legittimi [Strider 2], starà alla base di quel Devil May Cry che analogamente a Strider si proporrà di fare dello stile e della consapevolezza di essere uguale ma diverso il proprio manifesto rappresentativo.
Immortale.