Recuperato in un cinema parrocchiale costretto dalle attese inattese del lavoro. Non so perché l’ho saltato a Natale, in fondo era uno dei pochi film che aspettavo ma per mancanza di tempo non ho potuto.
Il risultato è alternativamente mesto e piacevole. Riassumendo Peter Jackson porta a compimento l’idea forte dietro al suo “Hobbit” vale a dire prendere un’opera solo cronologicamente anteriore a “Il Signore degli Anelli” e trasformarla in via cinematografica nel prequel di quel fenomeno di costume che è stata la trilogia di 10 anni fa. Si celebra e celebra la fame tolkeniana del pubblico che autorizza il prolungamento immotivato e forse bulimico di un’emozione molto difficile da replicare.
Col senno del poi, “l’Hobbit” non ce l’ha fatta a supplire alla mancanza di un fantasy cinematografico lungo e strutturato. Troppo poca la materia epica, troppo esigui i fatti, troppo bidimensionali i personaggi, là dove nell’opera originale erano si trovavano tipologie favolistiche con precisi intenti narrativi e didattici. A me è il film è piaciuto per tutto quello che non aveva nulla a che fare direttamente con l’opera di riferimento. Ci ho visto la concretizzazione di Warhammer, di World of Warcraft, di “Orchi” di Stan Nichols, di tutto quello che il gusto immaginifico della letteratura fantasy può produrre oggi aggiornando l’estetica. Mai viste armature così belle, armi e oggetti così rifiniti, mai assistito a una guerra fantasy con una tale potenza visiva, il valore de “La battaglia delle 5 armate” è puramente iconografico, con Dàin, Thranduil, Azog a fungere da action figures di ottima fattura.
Fermiamoci qui però.
Il resto è tutto uno scimmiottamento delle linee tematiche della precedente trilogia. Thorin alle prese con la bramosia del denaro e del potere che aveva caratterizzato Smaug, per poi ritagliarsi il ruolo di “ritorno del re”; Legolas, Tauriel e Kili imprigionati in questa telenovela sudamericana che almeno ha prodotto una gif di sicuro effetto “
Se questo è l’amore allora toglimelo ti prego!!” ma non c’è proprio il pathos della dialettica caducità – immortalità di Aragon e Arwen. Brandelli di spettacolo (lo scontro coi Nazgul, il ritorno di Bilbo alla contea ecc.ecc.) a raccordare il vecchio col nuovo dove il nuovo è più vecchio del vecchio.
Alla fine mi rimangono due istantanee dell’intera trilogia.
La prima è il consesso di nani che a casa di Bilbo intonano una canzone di fierezza e coraggio al barlume di candela. Lì c’è Tolkien.
La seconda è la bestia antica che si ricopre di sfarzo e corruzione come male ancestrale che risiede non visto e pertanto ancora più letale. Un bel modo di ricordare un passato videoludico con lui:
Da rivere come intera trilogia in versione estesa tra le mura di casa.