Scusate ma il pregio principale di Shenmue sarebbe che puoi giocare altri giochi? Lo chiedo perché è già la terza o quarta volta che leggo "eh ma in Shenmule puoi andare in sala giochi a rullare coi cabinati Sega, negli altri giochi mica puoi farlo". Non è un grandissimo complimento, sarebbe come dire che il pregio più grande di film X è che puoi alzarti dal cinema e andartene a casa a vedere un DVD.
Ahahahahah. Dai, l’esempio in realtà l’ho invocato una volta sola, poi l’ho solo ‘riciclato’ per chiarire a
Teo sotto quale punto di vista intendessi il ‘sandbox’ in Shenmue
.
Al di là di ciò, comunque, la libertà e la profondità d’interazione erano effettivamente ridotte, peraltro si traducevano in parentesi di gioco isolate, convolute, pressoché prive di continuità ludica con il resto dell’azione. Il punto, però, è il
dove e il
come questi limitati elementi erano serviti.
Dove: collocati all’interno di un telaio scenografico assai particolareggiato, capace di evocare un (allora) inedito senso di vivacità (passanti e quartieri riprodotti con un amore per il dettaglio che fatico a ritrovare in produzioni attuali, anche blasonatissime).
Come: accessibili ad libitum, in maniera slegata dagli obiettivi ludici in senso stretto (ossia quelli da raggiungere per portare a termine l’avventura principale), da qui, appunto, la frase ‘anticipava il concetto di sandbox’.
Certo, alla fine potevi fare quattro tipi di attività in croce (sala giochi, side jobs, allenamento marziale, azioni ‘filler’, come comprare da bere, mangiare, gadeget) però le potevi fare quando ti pareva, in uno scenario dinamico e amorevolmente realistico.
Scrivo “amorevolmente” perché, sebbene le varie fasi ludiche fossero tanto eterogenee da spezzare il continuum dell’esperienza ‘proto-free-roaming’, a fare da solido legante concettuale al tutto c’era un realismo etico schietto, veicolato dalla trama.
Croce e delizia del gioco era proprio la storia di vendetta vissuta nella dimensione umana (e tutta nipponica, dal punto di vista ‘morale’) di un adolescente. Procedere a piccoli passi, con caparbietà e discpilina, in un’impresa tutto sommato ‘eroica’, confrontandosi giorno per giorno con problemi tutt’altro che ‘epici’. Problemi come sbarcare il lunario con dei lavoretti, trovare le informazioni per arrivare all’assassino del padre, evolvere le proprie abilità marziali con gradualità e costanza per prepararsi allo scontro decisivo.
Perciò, sono assai d’accordo col
Predicatore, che ha già menzionato questo aspetto e al contempo penso che le opportunità di darsi liberamente ad attività voluttuarie (quali il collezionismo di gashapon e la pluricitata sala giochi) fossero doppiamente funzionali e ‘azzeccate’, quasi metareferenziali, già che si è tirato in ballo Kojima.
Quindi quest’affermazione
Oltretutto penso che chi non ha notato questo problema sia proprio il tipo di giocatore che non è stato capace di vivere Shen Mue come un'esperienza 'reale' e che l'ha invece vissuto ancora come un videogioco.
te l’appoggio solo in parte, zio ^___^.
Per poter vivere un’esperienza virtuale come ‘reale’ devi superare la sospensione dell’incredulità e
Shenmue ti titillava costantemente verso due estremi opposti, per farti rimanere nel limbo.
Da una parte la trama trainava l’utente verso lo stato d’animo di Ryo, facendo sì che il ‘cazzeggio’ libero venisse regimato, in quanto era la coscienza del protagonista a ‘imporre’ la strada, più che i limiti di gioco stessi.
Dall’altra parte, però, l’allora inedita possibilità di deragliare dai binari, esplorare e gustarsi un affresco di mondo virtuale assai dettagliato era un chiaro messaggio diretto alla pancia del videogiocatore consapevole di tale ruolo, che metteva in secondo piano l’empatia con il protagonista per favorire l’esplorazione del prodotto dal punto di vista stretto dell’utente (voglio vedere se posso fare questo, cosa c’è dietro questo vicolo… ai problemi di Ryo ci pensiamo dopo).
Si trattava comunque di una win-win situation, poiché in ogni caso la scelta produceva un feedback emozionale e dava un’illusione piuttosto credibile di ‘libertà’ (libertà di scelta), esattamente come ho riportato nel mio intervento iniziale:
Ricordo lucidamente che, in Shenmue, dopo essere entrato in sala giochi, essermi sputtanato la paghetta ad Hang On ed essere poi riuscito in strada, ho guardato il calare della sera e ho avvertito un sottile senso di colpa e di peso delle responsabilità.
"Sottile" perché diviso tra il mio essere giocatore che vuole sguazzare nel sandbox e alter-ego di Ryo che deve portare quel povero cristo a ottnere la sua vendetta.
Poi, torno da dirlo per chiarezza, gioco interessante per i tempi ma ludicamente poco riuscito, spesso snervante.
Sh1 mi trasmette qualcosa di intimo, caloroso...
Bella istantanea emozionale, son d’accordo
.