Irrompo per rompere un po’ ^___^.
Al di là del colore della chioma, elemento del tutto marginale, la nuova versione di Dante (o chiunque egli sia) mi pare un ritratto, fatto da Ben Templesmith, di quel fighetto effEMOnato del Robert Pattinson di
Twilight, che gioca a fare il cosplayer di
Devil May Cry, con tanto d’atteggiamenti sbrasoni, che, ricontestualizzati in questo stile, mi sembrano solo squallidi e ridicoli.
I primi scampoli di creature design mi appaiono altrettanto fuori tema, con mostri che sarebbero più attinenti a un
Silent Hill (ancora influenze visive alla Templesmith) che a un
Devil May Cry. Idem per gli ambienti, il gotico estetizzante con digressioni nello stile liberty proposto nei precedenti episodi (e frutto di quel fresco atteggiamento naif tutto nipponico, volto a giocare con l’iconografia di altri Paesi) scade ora nel solito design occidentale alla ‘metropoli fatiscente con annesso cimitero del New England’ in stile
Batman: Arkham Asylum, come ha notato anche
Emalord.
Capisco benissimo le reazioni negative dei fan, come capirei quelle degli appassionati di
God of War se si trovassero davanti a un ipotetico nuovo episodio rivisitato con stile grafico alla
Asura’s Wrath. Si fa presto a criticare l’effetto stridente che può avere talvolta il design nipponico (assai estremizzato e ‘simbolico’) quando incarnato nei motori grafici attuali (proni a generare mondi realistici e dettagliati), ma dinnanzi a questi cambi di direzione artistici credo emerga chiaro come la figurazione alla giapponese abbia ancora un senso compiuto e una comunicatività potente.
Visto che siamo nell’ambito dei VIDEOgiochi, l’efficace sodalizio tra comunicatività dello stile grafico e gameplay costituisce la base che connota l’esperienza nel suo insieme. A tal proposito, se osservato in prospettiva storica, il character design di Dante è tutt’altro che casuale, ma studiato nel dettaglio per trasmettere in un sol colpo d’occhio tutto quello che il personaggio è in grado di fare su schermo e che rappresenta il cardine attorno a cui ruotano gli aspetti innovativi introdotti dal brand sul piano del gameplay.
Per punti sintetici:
Dante (quello ‘vero’)
=Akira Fudo di
Devilman, inteso sia come quello originale di Go Nagai nel suo essere un uomo-demone, in grado di alternare le due forme a piacimento, sia come quello strafottente, dal look aggressivo, con pantaloni in pelle, catene d’argento e bracciali borchiati, rivisitato nel 1999 da Yu Kinutani nel manga
Amon – The Darkside of Devilman e poi, nel 2000, da Yasushi Nirasawa in
Amon – The Apocalypse of Devilman.
+
Il
Tak Sakaguchi in salsa
Versus di Ryuhei Kitamura, pellicola del 2000, dove il regista nipponico ibrida le coreografie action hard boiled di Hong Kong con i combattimenti parossistici e ubersplatter in stile manga d’azione. Oltre alle analogie visive con Dante e il suo modus operandi (faccia pulita, capelli a caschetto spettinato, giubbotto di pelle lungo, zombi e vampiri affrontati integrando attacchi di spada e armi da fuoco) è con
Versus che nasce, volente o nolente, l’azione ‘stylish’. Tanto che, come ha fatto notare giustamente
Wis qualche intervento fa, le migliori cut scene della serie sono quelle del terzo episodio e, guarda caso, è stato chiamato lo stesso Kitamura a dirigerle [<-
EDIT: sorry, ricordavo male, a dirigerle è stato
Yuji Shimonura, che ha lavorato come coreografo di Kitamura per le sequenze d'azione in
Versus, il senso non cambia, ma preciso al fine di non diffondere infomazioni errate
].
+
Alucard, del manga
Hellsing datato 1997, ovvero la creatura sovrannaturale che uccide i suoi simili (vampiri, ghoul, licantropi ecc.) per difendere gli uomini facendo uso di due pistole, una bianca e una nera (Ivory ed Ebony anyone?), vestendo un trench rosso e abbattendo il nemico con la sfacciata disinvoltura che deriva dai suoi poteri di vampiro.
In parole povere il design di Dante è il frullato ipervitaminico di quanto di più accattivante e originale aveva prodotto la cultura pop nipponica nell’ambito multimediale horror/action durante gli anni precedenti alla lavorazione e alla pubblicazione del primo
Devil May Cry. Una sintesi che non va a beneficio esclusivo degli ‘otaku’, ma esprime a tutti, in pochi tratti e in maniera diretta, i punti salienti della filosofia del gioco e del suo stile generale: stylish game, ambiente horror d’azione, violenza ironica, protagonista sborone all’apparenza ma anche combattuto interiormente per la sua natura (‘devil may cry’…) ecc..
A questo fanno da contorno tutte i richiami alle varie mode/tendenze giapponesi della prima decade dei 2000, come il capello platinato alla Visual Kei a cui fanno eco i ritornelli metal commerciali che sbucano in sottofondo durante i combattimenti, o spunti che evocano lo stile Gothic Elegant Lolita/Aristocrat nel pennellare un sognante universo gotico fuori dal tempo, dai dettagli romantico-decadentisti.
Tutto ciò per dire che, fuori dalla sua paternità stilistica di profondo stampo nipponico,
Devil May Cry perde tantissimo del suo fascino, finanche del suo significato e Capcom non aveva franchise più sbagliato su cui operare tale cambiamento. Peraltro, io non sono della filosofia ‘design nipponico uber alles sempre e comunque’ né sono in particolar modo fan della serie, pur apprezzandola molto e avendola giocata a lungo in ogni sua incarnazione… non posso però che constatare come nel caso di
Devil May Cry la forma sia uno dei propulsori più importanti della sostanza ludica e questo cambiamento a livello artistico depotenzia notevolmente il brand ai miei occhi, senza se e senza ma.
Scusate la lungaggine as ever, baci e abbracci a tutti
.