Dead Space 2 (“
DS2”) finito a difficile, dopo una maratona di 3 notti di fuoco.
Giocato su PC, con pad anziché mouse, a 1440p a 144hz.
Davvero si è trattato di un seguito che mi ha stupito a più riprese, sia nel bene (tanto) che nel male (relativamente poco).
La prima ora è stata francamente sconfortante. Ritrovarsi con un protagonista che avevamo lasciato muto nel primo Dead Space (“
DS1”) per favorire l'immersione (a la Half Life) e che ora invece recita un copione di dubbia qualità, con livelli strutturati in maniera lineare al posto delle aree circolari e ripercorribili della Ishimura, o ancora farcito da un numero preoccupante di munizioni e sequenzine spettacolose para-cinematografiche, davvero mi ha fatto temere che a questo seguito fosse toccata la stessa sorte toccata a Resident Evil nel corso della scorsa generazione di console.
Nulla di più sbagliato. DS2 ha spostato sì l'accento sull'azione, ma non a scapito della qualità dei meccanismi e della loro capacità di generare tensione. Soprattutto, l'operazione è stata attuata con una certa consapevolezza dei propri mezzi. Del resto DS1 aveva uno shooting system davvero fresco, tattico e appagante, che riprendeva l'insegnamento di Resident Evil 4 (“
RE4”) e spostava il concept su una scala di azione più piccola (spazi più claustrofobici, meno nemici) ma dalla rete di agenti-reagenti più fitta (arti da staccare e riutilizzare come armi improvvisate, nemici che cambiavano pattern per effetto delle mutilazioni subite, allineamenti fortuiti di cui approfittare per falciare più nemici con un singolo colpo, ecc.).
Con DS2, semplicemente Visceral ha capito di avere un gran pisello e non si è più vergognata di esibirlo. In altre parole, se si è così bravi nello shooting, perché non metterne a frutto il potenziale? Ed ecco allora che, dopo quell'incipit preoccupante, il gioco mette da subito in chiaro 3 cose: 1) quanto, a suon di levigate, consistente incremento quantitativo dei nemici per ondata e nuovi innesti al bestiario, gli scontri di DS2 risultino evoluti rispetto a DS1; 2) quanto l'aver istanziato l'azione in una successione di stanze-scontro ben palettate con ondate - talvolta multiple - ben orchestrate abbia prodotto quale risultato delle mini-sfide di spessore; 3) come l'abbracciare momenti spettacolari non significhi spegnere il gameplay.
Gli scontri di DS2 son come dei puzzle da risolvere a colpi di plasma, gestendo risorse, tempi di ricarica, fuoco secondario e soprattutto priorità dei bersagli in relazione al ferro imbracciato. Mi sono sentito attratto da DS2 subito dopo Doom Eternal perché sentivo ci fosse qualcosa in comune tra i due titoli oltre allo splatter e all'immaginario demoniaco spaziale. Qualcosa che, razionalmente, non riuscivo a spiegarmi. Oggi me lo spiego. Quel qualcosa in comune è il mindgame da tradurre in repentini cambi d'arma e esecuzioni, reagendo prontamente alla comparsa dei nemici e selezionando le priorità, nella consapevolezza che inanellare le giuste mosse porta alla catartica macellazione della carne avversaria accompagnata dal rilascio di risorse con cui prolungare la mattanza. All'opposto, un paio di mosse sbagliate possono determinare una rovinosa dipartita o, nel migliore dei casi, una risoluzione "sporca" dello scontro con spreco di risorse. Certo, DS2 si avvale di tutte le limitazioni motorie tipiche survival, ma questo non significa che non possa essere giocato con condotta aggressiva e, anzi, sopprimere l'avanzata avversaria prima che questa giunga a pieno sviluppo si rivela cruciale per prevenire scomodi accerchiamenti.
Il fluire meccanico dell'azione è sublimato dalla cura con cui tutto ciò è ritratto a schermo. Ok, i modelli poligonali dei comprimari umani sono abbastanza sciatti, le modellazioni e animazioni facciali sono pessimi anche in relazione all'anno di uscita del gioco, la resa di alcuni materiali è bruttina e la realizzazione delle fiamme strappa oggi più di un sorriso, ma al netto di ciò, DS2 è titolo visivamente bellissimo, sia in termini di art design, sia in termini di realizzazione tecnica al servizio al servizio dell'arte. Gli interni e la resa di alcuni materiali sono incredibili, i giochi di luce di un gusto che raramente ho riscontrato (penso al primo di The Evil Within) e la caratterizzazione dei necromorfi è rimasta quella stereotipata ma sul pezzo che fece la fortuna anche del primo capitolo.
Non è solo questione di realizzazione grafica, è anche un fatto di come cotanta bellezza si dipana dinanzi agli occhi del giocatore. E qui veniamo alla riflessione lanciata dal buon
@teokrazia . Si è fatto un gran parlare di God of War 2018 come presunto primo gioco in terza persona "girato" come un unico piano sequenza. Ebbene, se si eccettuano un paio di stacchi dati da uno svenimento del protagonista (espediente usato anche al cinema) e da un cambio di location tra fine capitolo 12 e inizio 13 (e qui credo che il taglio sia dovuto ai limiti tecnici per allestire l'arrivo al laboratorio a partire dalla sequenza sul carro escavatore), in realtà devo convenire con Teokrazia che il primo a cimentarsi in questa impresa - a memoria d'uomo e/o comunque con un certo grado di compiutezza - fu proprio DS2. Ragazzi, il gioco non stacca la camera nei cambi di capitolo, annunciati da una semplice titolo in bianco che appare in sovraimpressione. Non stacca nei passaggi alle cut scene. Non stacca in entrata e in uscita dalle sequenze spettacolose che vedono Isaac catturato da un qualche abominio e noi giocatori impegnati ad impedirne la morte. Non stacca all'atto di entrare/uscire da inventario, negozi e terminali per upgrade che, come in DS1, sono parte di una geniale interfaccia utente perfettamente integrata nel mondo di gioco.
Epocale ma, a quanto pare, dimenticato dalla storia.
Le lodi sperticate finora non devono indurre a credere che il mio viaggio in DS2 sia stato un continuo trionfo del gameplay e del game design.
Purtroppo, da un certo punto del capitolo 6 e praticamente per tutto il corso dei capitoli 7, 8 e 9, il gioco fa uso e abuso di nemici che spawnano praticamente addosso al giocatore o proprio alle sue spalle, lì, dove appena un attimo primo non c'era nessuno. L'intento è quello di iniettare spirito survival al gameplay, provocare i proverbiali "salti dalla sedia", aggiungere punte di sadismo alla difficoltà. Lo faceva, in misura contenuta, anche DS1. Qui però è davvero troppo. Sembra che gli sviluppatori abbiamo cercato la scorciatoia più comoda per creare dei picchi di tensione e di sfida, fallendo. Non avverto un senso di sfida intelligente se vanifichi il senso di una mia accurata e preventiva ispezione dello scenario. Non provo alcun terrore se quel che scorgo non è un minaccioso male alieno ma un game design pronto ad ogni genere di "furbata artificiale" e “scorciatoia” pur di incularmi. Provo solo fastidio e rottura dell'immersione, ossia le stesse brutte sensazioni che ho provato nei peggiori momenti trial and error di The Evil Within (pochi per fortuna), o nei più imbarazzanti momenti di level design di Dark Souls 2 (tanti purtroppo). Questo è semplicemente cattivo game design, è tanto ed è tutto concentrato in un corposo blocco di livelli.
Fortunatamente, dopo il suddetto set di capitoli, il gioco torna a centrare il delicato equilibrio tra tensione e fair play e, dal sorprendente momento autocelebrativo di ritorno alla Ishimura in poi, si lancia in una cavalcata encomiabile fatta ora di azione serrata (il capitolo 12 a bordo dell'escavatore), ora di scenari ostili da domare (il bellissimo laboratorio del capitolo 13 e le bianconate dei suoi fondali che suggeriscono un improbabile figlio bastardo tra Vanquish e RE2 Remake giunto a noi da una timeline alternativa), ora di disperate fughe survival d'altri tempi (capitolo 14).
Qui e lì la ripetitività si avverte perché, per quanto i level designer si siano impegnati a ricombinare spazi e file nemiche, dopo i primi capitoli, semplicemente il bestiario non si arricchisce di nuovi innesti. Né subentrano boss fight ad offrire boccate di aria fresca. Ragazzi, non lo avrei mai immaginato: una produzione horror tripla A senza uno straccio di boss unico?! Ok, ci sono scontri che combinano i nemici in situazioni particolari e più ostiche del normale (incluso lo scontro finale) che, volendo, potrebbero essere concettualmente assimilabili a dei boss, ma io parlo proprio di specifiche creature appositamente create per scontri unici, come li DS1 e come li ha qualsiasi titolo concorrente.
E prendendo le mosse da queste ultime considerazioni, mi avvierei alle conclusioni.
Non sono sicuro che DS2 sia, nel complessivo, un gioco migliore di DS1. La ragione è che nonostante le tante cose fatte bene e meglio, ho avvertito in questo seguito una generale sensazione di incompletezza.
Sarà che i livelli circolari con backtracking della Ishimura spalmavano il discorso sopravvivenza un pelo oltre i confini delle stanze-scontro di DS2, avvicinandone la formula ai veri e propri survival vecchia scuola.
Sarà che le aree tematiche della Ishimura, con la loro consistenza e coerenza planimetrica, nonché il gusto per la narrativa ambientale, creavano un senso di appartenenza ad un luogo fisicamente plausibile che è del tutto assente in questo seguito. Parliamo di un non sottovalutabile espediente che fece la fortuna, ieri, di System Shock e Bioshock, oggi di Prey e Control. DS2 vanta sì fondali bellissimi, ma son tutte bellissime cartoline di passaggio che una tira via l'altra.
Sarà che mancano i boss unici e qualcosa che spezzi la routine, mettendo tanta strizza addosso, come in DS1 facevano invece i vari inseguimenti con l'hunter, culminanti nella catartica disfatta dell'abominio nelle battute finali del gioco. Sarà che, come già detto, il bestiario esaurisce presto i colpi in canna, lasciando un po’ in affanno la nuova direzione action del brand.
Magari, se lo rigiocassi oggi, percepirei DS1 come un gioco meno divertente del seguito. Così, su due piedi, mi sento di dire che questo sequel è stato più un passo laterale che non un passo avanti, votato alla specializzazione sparacchina della formula a scapito di un'offerta survival completa. Poco male, visto che parliamo comunque di un third person shooter horror estremamente competente, con validi innesti survival qui e lì, realizzato da un team che attraversava un evidente stato di grazia.
Giocandolo oggi, ho la sensazione che, con un anno di sviluppo in più, questo DS2 sarebbe stato un titolo capace di provocare indifferenza all'idea di un RE4 Remake, forte com'è di un sistema di scontri ben più evoluto nelle sue meccaniche di base. Invece mi ritrovo a constatare che lo sviluppo quantitativo e qualitativo di arsenale, bestiario, boss e arene di scontro sfoggiato da RE4 per tutta la sua ragguardevole durato costituiscono un unicum, non solo impareggiato, ma neppure lontanamente avvicinato da altre produzioni tripla A. Possiamo solo fantasticare all'idea di come sarebbe stato DS2 con un anno di sviluppo in più.
La storia è scritta e non si cambia. La storia però ci consegna un gioco che immagino sia stato una sorta di messia per caso per coloro i quali lo giocarono al tempo di uscita, assieme ai vari Arkham Asylum, Demon's Souls, Bayonetta ecc., in un'era in cui il videogioco veniva lobotomizzato da produzioni semplificate, linearizzate e spesso avvilenti. La storia ci consegna un gioco che non solo ha superato degnamente la prova del tempo - perché, diciamolo, DS2 SI LASCIA GIOCARE E RIGIOCARE OGGI MEGLIO DI QUANTO NON FACCIANO TITOLI AL TEMPO PIÙ CHIACCHIERATI COME UNCHARTED, THE LAST OF US, CRYSIS 2, ecc. - ma addirittura ha anticipato i tempi (God of War 2018 e la costruzione del gioco in terza persona come piano sequenza).
Dead Space è morto. Lunga vita a Dead Space!