E' troppo facile, col senno di poi, attribuire il successo di Donkey Kong Country ad una folla di graphic whores abbagliate dalla sfavillante grafica portata da Rare sul Super NES. In effetti, una semplice occhiata allo schermo basta a capire come DKC possa essere apparso rivoluzionario agli occhi di gente abituata a sprite piatti, poco ispirati, poco colorati, tutti simili tra loro, e a fondali essenziali se non inesistenti. Tutto merito della tecnologia ACM, che permette di "appiattire" dei modelli poligonali, rendendoli di fatto 2D e permettendone l'uso sul SNES, ma conservandone il look and feel tridimensionale. Ecco allora che Donkey e Diddy Kong, i loro nemici e gli ambienti da essi esplorati sono tutti squisitamente caratteristici, solidi, colorati e animati alla perfezione, rifiniti da effetti di ombreggiatura clamorosi e dotati di rotondità quasi palpabili. La verve dei personaggi di DKC è paragonabile solo a quella degli abitanti del Regno dei Funghi, e questo vuol dire molto: Rare, al primo tentativo, è riuscita a creare un mondo coerente e definito, immediatamente riconoscibile, in cui nessun elemento è anonimo o riempitivo. Si potrebbe parlare per ore dei fondali lussureggianti, degli elementi in foreground, delle animazioni ed espressioni delle scimmie e dei loro amici e nemici, di chicche come la luce bluastra e fumosa delle lampade appese nelle miniere e l'orgiastica nevicata del primo livello artico, una vera pietra miliare. Se ci aggiungiamo effetti sonori potenti e azzeccatissimi e musiche di straordinaria ispirazione e qualità, possiamo capire perché DKC sia apparso allo stesso tempo come la resurrezione e la gloria definitiva del SNES, la nemesi di fronte alla quale qualsiasi fanboy Sega deve aver avuto profonde crisi religiose, e il vessillo della nuova generazione di lì a venire.
Ma DKC non è tutto qui. Perché Donkey Kong Country è il più fulgido esempio esistente di platform occidentale a 16-bit, un autentico manuale di game design, un meraviglioso modello di giocabilità. DKC usa le banane come Mario usa le monete, i barili in vece dei blocchi, e fornisce ai Kong quattro animali, tutti diversi, come ideali sostituti dei quattro Yoshi di Super Mario World. E, come Mario, Donkey e Diddy hanno poche mosse a disposizione, ma con queste poche mosse possono fare moltissime cose. Ma DKC non è un clone di Mario, anche se ne trae giusta ispirazione. DKCè un gioco molto lineare, ogni livello segue al precedente senza diramazioni e si snoda dritto dall'ingresso all'uscita. E il giocatore attento si accorgerà che ogni singolo livello di DKC riproduce, in se stesso, un intero platform dei tempi che furono. Ricordate come in Super Mario Bros e Adventure Island, avanzando nel gioco, gli stessi livelli si ripetevano aggiungendo più nemici e più ostacoli? Bene, in un livello di DKC si incontra tutta quella progressione, presentando inizialmente una situazione, poi rendendola via via più complessa man mano che si procede verso l'uscita, in una gradazione di difficoltà gentile ma non indifferente, che offre anzi momenti di genuina frustrazione. Inoltre, dovendo riproporre più volte le stesse ambientazioni, DKC si assicura di shakerare ogni volta la situazione introducendo sfide e trucchetti sempre nuovi, impossibili da citare senza rovinare la sorpresa, ma sempre sicuri di suscitare stupore e complimenti per la creatività di Rare.
Donkey Kong Country è un arcade di quelli più classici, la cui unica componente esplorativa è legata alla scoperta di un buon numero di stanze bonus che vanno ad aumentare la percentuale di completamento, ma perfino queste stanze sono dei "bonus" nel senso più tradizionale del termine, dato che il loro unico scopo pratico è quello di dispensare vite extra attraverso giochini vari. Paradossalmente, però, questo che dovrebbe essere il punto di forza della rigiocabilità è anche il punto più debole di DKC: le stanze segrete sono disposte senza particolare logica e spesso richiedono di distruggere dei muri il più delle volte insospettabili. Inoltre, entrare in una stanza bonus significa saltarsi una fetta di livello, finendo per non notare il mirabile lavoro di design e di accuratissima calibrazione della difficoltà offerto dal gioco.
Di difetti DKC ne ha ben pochi. Il gioco non è breve, ma la mancanza di elementi extra oltre alla ricerca delle stanze bonus può farlo sembrare tale e, alla fin fine, un po' insoddisfacente, anche per i boss facilini. Inoltre, certi punti sono eccessivamente punitivi e, in particolare, l'utilizzo a volte smodato dei calabroni Zinger ha dei parallelismi preoccupanti con gli spuntoni letali di Rockman, mentre altre situazioni sono superabili solo dopo un fastidioso trial and error che porta via chili e chili di vite. I controlli, purché ottimi, a volte sono un po' rigidi, specie quando si cavalca uno degli animali amici. Ma tutto questo impallidisce di fronte al risultato finale: nelle parole di Tiziano Toniutti, "DKC è una gabbia di cioccolata e starci chiusi dentro" è una dolce riscoperta delle radici dimenticate del platform più puro e più classico. DKC è a tutti gli effetti l'unico platform 2D con sufficiente carattere da poter competere testa a testa con Mario e da solo spazza via il resto della produzione a 16-bit in quanto a giocabilità pura e semplice, mollando il colpo di grazia con uno sfoggio di potere tecnologico impareggiabile, ottenuto tra l'altro senza doparsi con chip aggiuntivi. Pochissimi personaggi avrebbero potuto riemergere da un oblio decennale in modo così sfolgorante, e pochissime softco avrebbero potuto permetterglielo, ma Rare con Donkey Kong Country c'è riuscita. Giù il cappello.