Lontano dall’esigenza di stupire a tutti i costi e libero dalle catene del suo cinema, spesso autoreferenziale e appassionato più del meccanismo che dall’esigenza di narrare qualcosa, Nolan confeziona il suo film più maturo e consapevole. Parlo di maturità proprio per la tipologia di racconto che viene scelta, non è un film che punti alla stupefazione da blockbuster, è esigente e complesso come stratificazioni di idee e discorsi che formano il tessuto della consapevolezza del protagonista.
Interessante l’uso del bianco e nero come visione storicizzata delle vicende relative allo scienziato, cosa il mondo veda, dica e pensi di lui rispetto a quanto tramandato mentre il colore indica la dimensione soggettiva, psicologica ed emotiva del protagonista, la sua vicenda personale.
Direi che ci sono diversi temi in ballo, vediamo.
Il tema del potere attraverso un'idea: è la storia più vecchia del mondo in realtà, che accomuna Eva con frutto spiccato dall’albero e Odisseo con l’invenzione del cavallo, la tentazione tutta umana di poter sviluppare, ottenere ed esercitare un potere senza poterne prevedere gli effetti. La hybris scaturita da un ingegno che non si può pacificare e fermare fino al conseguimento del risultato ma una sola mente, benché brillante, non può prevedere tutti gli esiti. Ma, allo stesso tempo, si è troppo sedotti dalla possibilità che qualcosa di teorico diventi reale e tangibile da sospendere la sfera etica. Non solo, come appunto il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male e come il destino del titano Prometeo largamente citato dalla pellicola, l’idea della conoscenza come processo infinitamente perseguibile e del progresso come positivo avanzamento dell’umanità confligge per forza di cose con l’eterogenesi dei fini. Il potere poi consuma chi lo detiene e ferisce tutti gli altri, infatti questo tema, nella seconda parte del film, diventa centrale per la comprensione della psicologia dei personaggi. Tutti soffriamo per il peccato di uno, se questo soggetto ha responsabilità e la volontà di arrivare fino in fondo. Ma poi bisogna farci i conti, come dirà in una certa scena il personaggio di Emily Blunt.
L’egoismo stolido della scienza: il mio professore di Filosofia della Scienza, all’università, scherzava dicendo che le persone più stupide e pericolose che avesse conosciuto in vita sua fossero praticamente tutti ingegneri*. Al di là dell’ assurdità statistica e della palese provocazione, il senso nascosto avrebbe voluto essere quello di una scienza "tecnica" serva di un funzionalismo e utilitarismo che, per spiegare il mondo dei fenomeni secondo una particolare missione, guarda il mondo dal buco della serratura perdendo il contatto con il tutto. Se puoi farlo allora è giusto farlo, anzi si deve fare. Nessuna persona basta a se stessa, una mente, per quanto geniale, deve comunque sottoporre il frutto dei suoi sforzi a una comunità che ne indaghi presupposti ed esiti secondo sensibilità diverse. Lo dice il personaggio di Matt Damon, “genio non vuol dire saggio”. E’ il processo di oggettivizzazione del sapere e tensione alla dialettica comunicativa necessaria in una comunità scientifica, ossia quella che salva la persona dalla propria, autoriferita, soggettività, che anche dal punto di vista psicologico è il demanio dell’immaturità e della mancanza di confronto. La filosofia antica lo aveva in parte capito, infatti molte concettualizzazioni dello stato perfetto e della società ideale (con tutti i limiti di popolo antichi di millenni) ponevano un mutuo controllo delle competenze da parte di un gruppo di individui con un punto di vista diverso, capaci, proprio per questo, di rendere più razionale lo scopo da perseguire. Lo spaccato storico di Oppenheimer è il distillato di quanto sopravvissuto del positivismo scientifico della seconda parte del XIX secolo, quello che in virtù dei lumi della scienza (che oscurano il resto) e del risultato da ottenere avevano relegato umanesimo e filosofia a moti meramente spirituali. E questo è il risultato. Il protagonista ripete spesso “lo terrò in considerazione” quando è evidente che il perseguimento dello scopo e del risultato, ammantato di ragion di stato, pone sempre il dilemma tra quella “teoria” e “pratica” dove la seconda sostanzia la prima di gloria o fallimento. Si potrebbe obiettare che il progetto Manhattan fosse per scelta e opportunità uno spazio di esclusione della comunità scientifica e anche civile per ragioni di segretezza. E si potrebbe anche aggiungere che la prospettiva bellica sospenda la riflessione filantropica, però fatalmente è proprio quello il punto, un’arma e la guerra. E’ un processo tutto umano, irreversibile, irrinunciabile e per questo destinato a portarci alla distruzione, prima o poi.
Il film basa molta parte del suo fascino sull’ambiguità del protagonista, anzi per me calca anche troppo la mano su questo discorso intentando la carta del plot twist finale (diciamo) in modo un po’ goffo, per cui si passa da una perplessità dopo la scena del test che poi viene riassorbita quando il film svela tutte le sue intenzioni comunicative, ponendo le basi della riflessioni di cui sopra. Ma c’è una ragione.
Il tema politico e dello spionaggio: qui ho la sensazione che, a meno che di una conoscenza abbastanza approfondita di tutta la vicenda personale e pubblica di Oppenheimer, molta parte del pubblico abbia subito abbastanza passivamente questo intreccio di post Seconda Guerra Mondiale – guerra fredda vissuta dall’altra parte dell’Atlantico, di pericolo nazista a cui si sostituisce quello comunista e più in generale, del dissidio tra lo scienziato e il personaggio di Robert Downey Jr. Lewis Strauss e relativa commissione. Qui si scorge il Nolan freddo e analitico, laddove altri registi avrebbero posto l’attenzione su aspetti più romantici e intimi qui il focus rimane la costruzione documentaristica di questa coda velenosa della guerra. Dopo il Trinity test, che da un certo punto di vista può essere considerato l’apice emotivo della pellicola, questo finale prolungato in mo’ d’inchiesta è stato un po’ anticlimatico. Anche cognitivamente, la parte finale del film in cui lo spettatore è a ogni modo già affaticato dal minutaggio ingente, mancano proprio 30 minuti in cui è richiesto un ulteriore innalzamento dell’attenzione. Tuttavia credo sia uno degli aspetti che ponga questo film in una prospettiva assolutamente non giudicante rispetto alle figure in oggetto, visto che il protagonista, pur consapevole di quanto detto sopra in merito alla sua ricerca, scava interiormente le motivazioni del suo agire attraverso quello che gli altri dicano di lui. E con esso anche lo spettatore, accucciato nel relativismo etico che una simile situazione richieda.
Non mancano i difetti, primo tra tutti un nolanismo di ritorno che qui si esplica in una dimensione fittizia dei dialoghi. Sembra quasi che i personaggi non interagiscano tra loro in un fluire naturale o comunque verosimile del confronto tra due o più persone, sembrano monologhi in cui l’attore di turno si lancia in discorsi utili e funzionali a trama e concetti in modo però abbastanza artificioso rispetto alla verosimiglianza della scena. Più teatrale che cinematografico, bisogna un po’ stare al gioco delle parti.
Secondariamente, in puro stile Nolan, a dispetto della titanica durata il montaggio è serrato e veloce, con significative ricadute sul piano dell’attenzione e abbastanza stordente alla lunga distanza. In questo senso non sono d’accordo con l’idea di “film classico” suggerita da alcuni, è puro Nolan al 100% ma senza significative scene d’azione diventa un mosaico sfaccettato di micro sequenze da mettere insieme. E si esce dal cinema esausti. Va bene così.
Per il resto nulla da dire, attori al massimo e Cillian Murphy spina dorsale del film.
Concludo con 3 osservazioni a carattere puramente soggettivo e da approfondire:
1) In ogni caso, il Nolan post Interstellar non ha saputo più conquistarmi a certi livelli. Dunkirk, Tenet e questo sono bei film ma lontani dalla mia sensibilità;
2) A titolo intuitivo, per me Nolan ha un rapporto conflittuale coi personaggi femminili dei suoi film. Non mi azzardo a dire che sia maschilista ma spesso noto qualcosa che non vada e molte figure femminili hanno ruoli assolutamente strumentali.
3) Stessa cosa col sesso, che sono davvero le scene più discutibili del film. Non è necessaria l’ostentazione dei corpi ma la grammatica dei sensi è qualcosa che sembra non appartenere al suo cinema, anche guardando i film precedenti.
*Ovviamente lui era un ingegnere, folgorato sulla via di Damasco dalla filosofia e convertitosi in docente. :D