Di solito, nella settimana di Pasqua, mi rivedo qualche film a carattere religioso per puro diletto.
Non c'č niente da fare, Scott rimane un regista le cui opere vanno viste e riviste, introiettate, sedimentate e studiate.
Questa volta ho terminato la visione in copiosi lacrimoni, per quando mi riguarda, fino a questo momento si trattava di film molto curato sul piano estetico, interessante sul piano concettuale ma piuttosto avaro di emozioni genuine.
Invece, nel corso della visione di ieri sera, ho davvero percepito la dimensione esistenzialista del film, quest'uomo, Mosč, turbato da un'asincronia spirituale che pone come causa inconsapevole del cambiamento della sua vita e che trova in Dio il dispositivo per percorrere una strada che prima non vuole, poi non capisce e alla quale, al termine, s'abbandona. Non grato e pacificato, ma sconcertato e riluttante, pur agendo nel sentiero che gli č stato mostrato.
L'idea che il cambiamento umano sia una pulsione che scaturisca dal basso, come principio etico di giustizia e bellezza ma che la stessa debba poi incontrare il giusto "kairos", come funzione qualitativa del tempo, il tempo favorevole che designa l'azione performativa e salvifica di Dio nella temporalitŕ.
Il Mosč di Ridley Scott č un uomo che non capisce, non comprende mai veramente. Eppure č (s)mosso da una temperie intima di necessitŕ e urgenza, e dialoga con se stesso per parlare con quel Dio irraggiungibile che, come tradizione documentale jahvista, č un fanciullo capriccioso e ostinato, un'antropomorfizzazione di Dio che va a indicare, con oltraggio per molti teologi, la natura amorevolmente passionale verso la sua creatura.
Fino a quelle tavole della Legge scolpite nella pietra, che non passa mentre l'uomo č caduco nella carne e nello spirito per definizione.
Grandissimo film e bellissimo kolossal.