Completate diverse run, con la soddisfazione tutta coinoppistica del singolo credito dall'inizio alla fine, che non è un vezzo fine a se stesso ma un eccellente dispositivo di incremento dell'impegno, memorizzazione e acquisizione dei pattern.
Che dire? Quando seppi di questa riproposizione a opera dei polacchi il mio oltranzismo nipponico per ciò che è, appunto, nipponico mi ha fatto temere il peggio. Invece mi sono sbagliato alla grande e il team è stato capace di accostarsi all'altissima materia d'origine con rispetto, cautela e gusto. Il gioco originale è del '95, i primordi dell'era tridimensionale in cui la perizia dei programmatori e degli artisti consisteva proprio nel far convivere l'approssimazione del poligono nella forma più grezza e la necessità, quasi pittorica, di restituire le visioni di artisti e opere come Dune, Nausicaa nella Valle del Vento e il lavoro di Moebius. Il Team Andromeda e il neonato hardware di Saturn fecero il resto, consegnando il gioco alla leggenda di quel mondo giapponese che noi occidentali guardavamo con il desiderio tipico della giovinezza e il tutto assurgeva a rango di mito leggendario, culto da esercitare nelle riviste e nel negozio specializzato di turno.
Giorni diversi, giorni lontani.
Il primo, rilevante, problema è stato sicuramente quello di non umiliare la dimensione artistica del titolo originale, per cui s'è proceduto a una ripulitura dei modelli e a un incremento dei toni caldi del colore. Ne risulta un gioco più stagliato, lucido e colorato, vira sovente verso un cartonesco nipponico che giova tantissimo ai modelli estetici di riferimento. Insieme alla buona tenuta tecnica e senza considerare i trascurabili difettucci tecnici che qua e là affiorano, devo dire che l'appassionato storico della saga non può che accogliere con plauso e gratitudine un lavoro così attento alla sensibilità artistica di chi quel mondo l'ha creato e di chi conserva nel suo severo sguardo l'esigenza di un rigore non negoziabile.
Oltre l'aspetto visivo, la fortuna, appunto, è stata questo benedetto incontro tra Forever Entertainment/MegaPixel Studios affiancati da Yukio Futatsugi, una sinergia che s'è posta come primo obiettivo quello di non modificare in alcun modo la struttura di gioco del '95. Il discrimine si trova qui, per qualcuno ormai questo modello a binari potrebbe essere del tutto inopportuno in un mondo, quello videoludico, che ha svincolato il ruolo del giocatore dall'idea di prestazione dedicata e assidua. Per altri, come il sottoscritto, questa idea un po' antica e romantica di livelli corti da interiorizzare e di attese di qualcosa di grande oltre il soglio dell'orizzonte rappresenta uno dei principali motivi per cui videogiocare ancora oggi, dopo i 40 anni. A metà strada tra un furioso arcade da sala giochi senza ancora essere (e voler essere) un bullet hell sincopato e furioso, Panzer Dragon Remake è un titolo antologico da consumare con lentezza e metodicità, con la sicurezza che la dimensione immaginifica debordante di quel decennio di sperimentazioni ludiche e visive non lascia assolutamente delusi. Con l'aggiunta di accorgimenti tattici e strategici non banali, anche per un gioco così diretto, un ricorso al pensiero laterale a carattere prettamente esecutivo che è grammatica irrefutabile del videogioco. La brevità del tutto (meno di un'ora per il completamento integrale) e la rigiocabilità aiutano a mantenere l'attenzione desta per quella che vuole semplicemente essere una pura, cristallina e sincera esperienza arcade. Con il bonus della ricompilazione dei controlli che, volendo, possono aderire a forme più contemporanee di personalizzazione.
Un viaggio nel tempo che prende per mano il giocatore, nella comprensione di ciò che eravamo e nella speranza di non disperdere i semi del verbo di una gloriosa tradizione ludica che resiste, a fatica, ma è ancora presente nei gesti quotidiani del joypad.