Un successone questo gioco qui eh?
A quasi una settantina di ore dall’inizio di questa strana esperienza mi affranco da
Hyrule Warriors: l’Era della Calamità con un certo senso di gratitudine. Concettualmente s’è consumato uno psicodramma nintendaro, vale a dire l’incontro e la fusione tra uno dei giochi più significativi dell’evo moderno (BOTW) e la tipologia di gioco più infamata di tutte (il musou) da chi consideri la qualità del gameplay quale caratteristica principale di un videogioco. Molte persone che conosco hanno aprioristicamente deciso di non dare neanche una possibilità a questo gioco, scandalo per switchari e stoltezza per gli zeldisti. La buona notizia, da quello che si sa, consiste nella supervisione stretta di Nintendo.
I limiti della tipologia musou sono noti, quello che varia è la declinazione dei vari elementi. Partiamo dalla vicenda. I cento anni precedenti ai fatti narrati in BOTW sono qui riproposti con una storia (canonica o meno non saprei) capace di caratterizzare molto bene le figure che abbiamo imparato ad amare.
La speranza nel ruolo dell’eroe è la materia di cui è intriso questo gioco. Sperare è quella tensione verso qualcosa che è percepito come bene, verso il compimento di ciò che è necessario in quel mondo. La speranza è prerogativa umana legata alla vita e al rivolgersi al futuro, un futuro che nel mondo di Hyrule coincide con il passato che ci troviamo a vivere qui, per cui tutto è scritto e tutto deve compiersi. Se la speranza è legata a chi la rende possibile, per questo le speranze umane sono insicure poiché legate all’accettazione dell’ineludibile. I campioni di Hyrule sono proprio la certificazione di questo sottotesto narrativo. Link è davvero un collegamento, alla memoria del mondo, alla ritrovata consapevolezza di sé, all’idea che qualcosa che di nuovo può divenire grazie alla ricompilazione di vecchie idee. Per carità, cutscene molto brevi e intermezzi che non vogliono togliere troppo alla parte giocata ma il tutto ha davvero una cura notevole. Davvero un buon lavoro, con numerose chicche sparse qua e là come dialoghi opzionali che riprendono alcune tematiche dell’opera di partenza, istantanee che svelano segreti e curiosità con la forza narrativa del prequel mascherato. Dal punto di vista del contorno e della confezione direi che non ci si può lamentare.
Dal punto di vista grafico, tecnico e stilistico abbiamo sicuramente un titolo di pregio che poggia le proprie fondamenta sull’impareggiabile base di BOTW. Tutto è curatissimo, il design di personaggi e luoghi è davvero quello che ci si aspetterebbe, con l’unica pecca di un frame rate che non tarda a scendere sotto i 30 fps con una certa frequenza e che rovina un quadro generale altrimenti incantevole.
La gratitudine di cui si faceva accenno si deve al fatto che, per un fortunato effetto osmotico, il modello medio e tipico del musou ha beneficiato di una robusta iniezione di profondità e organizzazione della struttura generale, forse per venire incontro alla responsabilità di poter sfoggiare una simile ambientazione.
HW:EdC abbandona il modello acefalo tipico del genere per differenziare personaggi, armi, mosse, poteri e approccio alla lotta. Missioni più elaborate, dinamiche più sviluppate, un’organizzazione delle attività e dei segmenti ludici decisamente rinnovata e potenziata. Una difficoltà accresciuta, di certo modulabile ma in ogni caso capace di offrire una buona sfida anche al giocatore smaliziato, al giusto livello.
Si tratta di un momento individuatorio in cui ogni giudizio è possibile, forse anche cambiare idea e lasciarsi coinvolgere da un tipo di gioco ritenuto fin lì irricevibile. Non conta più la varietà della struttura ma l’approccio additivo e incalzante. Abilità e leggibilità della lotta sono affidate al giocatore e alla sua capacità di andare oltre e divertirsi con questa forma quantitativa di picchiaduro a scorrimento. Se si getta il cuore oltre l’ostacolo quello che ne viene fuori è un titolo genuino, dal cuore ricreativo brillante e luminoso. A prova di stress test, poiché, come accade per certe meccaniche diaboliche, il desiderio di potenziarsi ed esaurire la sfida procurano una prolungata sensazione di piacere. Qui non si trovano collisioni troppo sballate e telecamere ingestibili (giusto un po’…), al massimo i già citati vistosi cali del frame rate che sono oggettivamente fastidiosi ma con cui si convive.
Quindi bisogna anche investire in tempo, risorse e intuito per portare a casa il risultato. Roba da sbloccare, strumenti da potenziare, oggetti piazzati in un punti strategici a promuovere l’esplorazione dei livelli/arene, in modo tale da movimentare un pochino il level design e ingegnarsi a esplorare in chiave bellica. Che poi, di fatto, è sempre una buona scusa per attardarsi nel gioco. Quando vuole
HW:EdC sa essere una vera e proprio droga.
Cosa rimane, dopo tante ore missioni svolte? Semplice, un buon gioco di genere che può donare ore di onesto divertimento, svincolandosi da un pregiudizio (giusto o sbagliato che sia) di un contesto videoludico generalmente più esigente. E l’idea, neanche così peregrina, che un genere così vituperato e banale possa essere nobilitato da piccoli accorgimenti che sicuramente non renderanno titoli come questi dei capolavori ma che almeno propongono un’opera dignitosa.