Postiamo qui problemi relativi alla natura strutturale della saga di Metroid.
Premessa filosofica, vista la delicatezza dell’argomento. Ogni conoscenza della realtà (culturale, videoludica, morale) è una conoscenza che prende le mosse da particolari punti di vista. Quando si fa riferimento ad una comunicazione che abbia la presunzione di non essere semplicemente un punto di vista ma un focolaio da cui divampi una radiosa riflessione, si auspica che il punto di vista si avvalga di argomentazioni invincibili e indeclinabili e, di conseguenza, ergersi al di sopra del mero esercizio opinabile e adottare categorie universali atte a porre in luce connessioni significative in senso ampio. Ovviamente non ho le facoltà di innalzare a tale livello il mio pensiero.
Quando si discute di un certo fenomeno, non bisogna limitarsi a recepire quell’idea come confacente al proprio punto di vista poiché, da sempre, l’opinione è la tomba di ogni dialettica in quanto posizione debolissima della complessità di un fenomeno. Giudicare significa criticare e criticare significa scomporre il dato empirico in particelle di pensiero che a loro volta possono ricomporsi partendo dalla loro realtà atomizzata. Un’idea è un processo posteriore della reductio ad unum dei suoi elementi seminali, non la premessa per convincere il mondo.
Il valore performativo della forma (e quindi del linguaggio) è dunque creare una comunicazione ovvero un’esperienza di prossimità, di vicinanza che sveli un’idea. L’idea deve essere mimetica con lo stereotipo classico di quel genere di evento precipuo, nel nostro caso un franchise di svariati anni che ultimamente ha dovuto pagare pegno ad una tridimensionalità fraintesa, fallata.
Team Ninja, partendo da questa analisi, ha restituito Metroid a Metroid, laddove Retro Studios ha veicolato un convenzionalismo basato su un linguaggio più consueto (l’esperienza in soggettiva) attraverso una raffinazione delle linee guida dell’esperienza Metroid. Non mi sento di bocciare la filosofia pragmatica che ha animato una simile rivoluzione, ma dopo cinque anni di scansioni in soggettiva e porte ermetiche da aprire cambiando genere di munizione, mappe fintamente esplorative basate sull’ennesima ripercorribilità, ecco che esprimo, tra l’impopolarità, l’errore di Retro nell’aver dislocato un’esperienza autenticamente bidimensionale in un’odissea falsamente tridimensionale.
La difficoltà che caratterizza ogni armonizzazione tra vecchio e nuovo consiste nell’interpretazione del concetto di evoluzione, qualora si svincoli dall’annoso problema della ripresa o della ripetizione dell’identico. L’evoluzione richiede necessariamente una continuità e a mio avviso tra Metroid 2d e Metroid Prime si rileva uno scarso grado di attendibilità qualitativa di genere e prospettive. Quindi una discontinuità evidente che, a mio modo di vedere, concorre attraverso una logica stringente alla conclusione che Metroid Prime è un’interpretazione aleatoria e soggettivistica dello spirito autentico della saga di Metroid. Vale a dire, una suo effetto collaterale dato dai tempi e dalle circostanze.
Metroid Prime nasce dall’esigenza di un team di programmazione occidentale di interpretare un classico del passato, di scaturigine nipponica e di matrice bidimensionale. In questo genere di operazione, che potremmo definire un’operazione di traduzione, si possono prendere antitetiche filosofie per approcciare le problematiche connesse. Più in generale, bisogna comprendere se vi vuole privilegiare l’aderenza al modello archetipico oppure concentrarsi sulla forma di arrivo come modello portante. Metroid Prime rimane a metà strada tra le due iterazioni, ponendosi come istanza integrativa tra fenomeni dissimili che si può definire come meccanica di compensazione. Tutto è compensativo in Metroid Prime. Non è, coem giustamente è stato sottolineato, un First Person Shooter ingabbiato in comandi troppo permissivi, è stata coniata l’espressione First Person Adventure, svincolando ogni obbiezione connessa alla semplificazione bellica (compensazione). La natura aliena dell’ambientazione suggerisce una prospettiva escatologica basato sulla rimozione del vivente ad appannaggio di una ricostruzione a posteriori della vicenda. Per essere dei luoghi solitari, i pianeti di Metroid Prime consentono una lettura di eventi, fatti e situazioni che sconfina decisamente nel didascalico, assimilabile quasi ad un gioco di ruolo. Ecco, anche in questo caso, l’indeterminazione accarezza i contorni della ricerca investigativa laddove il mistero rimanga tale, ossia non necessario. Al vuoto del contesto si oppone un pieno informativo che stride alquanto con tutto quello che si vuole comunicare con la cessazione comunicativa. Ogni volta che si entra in un ambiente di Metroid prime la mole e il tono delle cose da sapere, o che si vorrebbe sapere oppure, infine, che non abbisognano ma riempiono, ammorba il giocatore che può anche scegliere di fregarsene, ponendo, in tal caso, un problema di pensabilità (compensazione).
Ormai ci conviviamo da quindici anni, 2d e 3d non possono entrare in conflitto perché si occupano di materie fondamentalmente diverse, sebbene, paradossalmente, tutto ciò non comporta l’autosufficienza l’uno dall’altro, l’interpolazione è una prospettiva piuttosto feconda. In particolare, aggiungendo in effetti una dimensione in più, il 3d può rappresentare un orizzonte rinnovabile di nuove categorie ed intuizioni. La tridimensionalità è uno strumento, la cui meccanica è mezzo e mai fine. Metroid Prime non è mai stato un gioco realmente tridimensionale, pur perdendo la semplicità e l’immediatezza di un gioco a due dimensioni. Troppe le forzature, troppi i meccanismi farraginosi di una sospensione che si vuol far passare come solitudine, senso di vuoto, atmosfere morte e aliene. E che invece si risolve in una sequela di corridoi, stanzette e ballatoi in cui le medesime operazioni di susseguono troppo uguali a se stesse e troppo ridondanti per non esprimere una sincera preoccupazione. L’azione non si svolge in modo investigativo e deduttivo, al contrario. Di conseguenza a quanto detto sopra in riferimento al canone narrativo, gli elementi si ricavano da un’osservazione che dovrebbe fornire spunti narrativi (scarsamente coordinati, come si diceva sopra) ma che poi diventa anche meccanica, una serie di interruttori il cui senso sfugge fino alla prova stolida di agenti e reagenti ossia il brutto esito di vecchie avventure grafiche non compiutamente pensate. Si tratta di provare ogni oggetto su ogni cosa, ogni proiettile su ogni superficie, ogni strumento su qualsiasi cosa di interagibile. Quindi un’enigmistica che non si basa sull’offerta del problema in quanto tale, ma che è problema in sé, la sua indecifrabilità cognitiva e razionale diventa un inconcepibile strumento di progressione. Ecco perché, incredibile a dirsi e nello sconcerto dei benpensanti, Metroid Prime oppone confusione alla complessità, destrutturazione alla ricostruzione, casualità alla causalità. Quindi una pluralità informe ad un’unità intelligibile, basando il suo principio sulla presunzione di accordo tra elementi aleatori. (compensazione)
Perché Metroid Prime sarà anche la superba ricompilazione di un classico immortale, la vetta tecnica di una gloriosa console del passato e una del presente e più in generale un classico istantaneo. Ma nulla mi toglie dalla testa che nel suo svolgersi e nel suo fluire sia, infine, poco divertente, al di là della legittima tensione nel voler esaurire le sue problematiche. Il divertimento è una prerogativa impossibile da portare sul piatto del confronto, troppe le definizioni e comunque non si riesce a quantificare un’eruzione così spontanea e incontrollabile della sfera privata. Ma è nella stratificazioni di azioni e proiezioni che Prime perde l’innocenza della semplicità e sostituisce l’immedesimazione in senso stretto, soprattutto dal punto di vista procedurale.
L’illusione riposa sul fatto che, invece di essere un arricchimento, questo dispiegamento del principio porta al dissolvimento in parti dell’identità, e sperpera l’unità poiché, invece di tenerla in sé, il sistema di gioco stesso procede verso la grandezza o l’estensione, che è in realtà un modo d’essere più debole e incapace di contenerla o trattenerla. L’affastellamento di una serie di meccaniche difficilmente conciliabili tra di loro (visuale in soggettiva/salto a scopo platformico, difficoltosa fluidità di esecuzione tra indagine e deambulazione, fase di sparatoria svincolata dal binario coercitivo solo con l’avvento del Corruption ecc. ecc.) frustra in giocatore non tanto in termini di difficoltà in sé ma in virtù di un farraginoso esercizio di scelta dello strumento che in principio seduce ma che in relazione alle caratteristiche di Metroid (respawn, backtracking) produce un corto circuito poco appetibile. E un corto circuito che dura 30 ore diventa un blocco di sistema.
Questo, per me, significa divertirsi poco.
Adesso parliamo di Metroid Other M.
L’intro e il tenore medio della narrazione di MOM (già…mom) portano alla luce un problema scottante rampollato anche con il recente demo di Vanquish, ossia il vuoto lasciato dallo sciopero tecnico e creativo delle software house giapponesi. Quel quid nipponico che traccia una linea comune tra videogioco, cinematografie e fumetti, quella narrazione fatta di romanticismo, grande epica e gasamento genuino attraverso figure iconografiche ed ampia scrittura. Qualche anno fa la scoperta del sesso di Samus costituì di per sé una scoperta, un cambio di prospettiva tardivo nei confronti di un personaggio muto, silente e sfuggente in cui la solitudine era mimetica con gli ambienti che si trovava ad attraversare. Metroid non parla di pianeti sconosciuti ed antiche civiltà morte, tutto ciò è semplicemente lo specchio del vero spirito di questa serie, la protagonista, un essere umano che per molto tempo si è identificato con il suo involucro e che con MOM diventa un veicolo di emozioni retrospettive. La bellezza della nuova Samus trasforma un racconto di Asimov a cui si poteva assimilare Prime in una saga fantascientifica di rara bellezza anime, fatta di sentimento e personaggi e richiama tutta la tradizione nipponica in fatto di robotica, astronavi e affreschi futuribili. Questo è stato l’errore di Prime! Cancellare senza appello quella fisicità che da sola basta a comunicare un mondo, un’intenzione che si realizza grazie alle movenze di un modello che deve sempre essere il centro della scena. Così per Samus, ma per comprendere il concetto potremmo evocare Strider Hyriu, Alucard, Yorda e tutto ciò che di bello e aggraziato illustra una prospettiva estetica, un piacere autocomunicante. Dentro quell’armatura, quell’esoscheletro spigoloso sappiamo esserci forme rotonde e seducenti, il velo attraverso cui alieno, o meglio l’alienante atmosfera viene condivisa con il giocatore.
Si, non prima però di operare una doverosa analisi oggettiva del prodotto.
Il gioco, nella sua meccanica action e nel suo svolgersi, poggia decisamente su gli episodi bidimensionali della serie, ma con la sapiente iniezione dell’elemento Ninja Gaiden, non inteso come emulazione. Questo è il punto fondamentale che potrebbe salvare MOM dal confronto diretto con Prime, poiché, in effetti gli elementi fondamentali della saga in chiave 2d possono essere rivisitati, non trasformati. Tanto per cominciare, in materia di level design, la prima ora di gioco insospettisce, attorno al paio d’ore i sospetti diventano quasi una certezza e poco dopo due ore ci si deve configurare al ritorno al passato remoto, con gioie e dolori. Corridoi su corridoi, tutti uguali nell’ottica della specifica locazione, un backtracking tipico della saga con respawn dei nemici. Difficilmente si trova lo scorcio memorabile a cui ci aveva abituato Prime, in particolar modo Corruption. Ed ancora più rari sono i momenti in cui la monotonia delle ambientazioni viene interrotta da elementi architettonici sorprendenti e caratteristici. Il gioco mostra il fianco agli ultimi 3 anni di soluzioni estetiche dell’action game, difficile trovare le vertigini di Pop, lo stile di GoW, il gotico di DMC in chiave sci-fi.
La progressione è fortemente lineare, e questo è un peccato perché l’estensione media delle ambientazioni è relativamente elevato, ogni specifica consta di una manciata di stanze e corridoi, piene di varianti e piani da percorre. La mappa è necessaria, se solo non si fosse ricorso a questa sequenzialità che non lascia mai al giocatore il dubbio cosa fare o dove andare. Nella seconda metà del gioco i vari ambienti cominciano a movimentarsi con innesti naturali e piacevoli divagazioni enigmstiche e per una attimo si ha la sensazione di una versione rediviva di Super Metroid ma l’impressione è destinata ad infrangersi contro il computo delle ore. La verità è che l’istinto esplorativo del giocatore è del tutto lasciato al suo desidero di rinvenire ogni forma di potenziamento, senza che istanze di natura artistica o cervellotica corrompano il semplice girovagare per il ritrovamento dell’item. 10 ore per arrivare alla fine senza problemi, 15 per esaurire ogni suo anfratto. Un seconda tornata abbatte ulteriormente il tempo di gioco.
Ludicamente si tratta di un godimento di natura assai squisita, sebbene gli elementi compositivi non sempre si sviluppano in maniera armoniosa. Il gioco può oscillare tra il difficoltoso e il sollazzante ma il passaggio dal primo al secondo è una scienza che poggia sulla geniale contaminazione tra l’occhio esterno del giocatore e l’occhio interno di Samus che possono solo essere tangenti ma non coincidenti. Affrontare una pletora di nemici scatena esplosioni e sparatorie a cui s’alternano schivate repentine e fugaci disimpegni. In tutto questo marasma girare il controller per cogliere il punto debole di un nemico rappresenta un momento di sublime identificazione videoludica, in cui davvero l’occhio diviene strumento d’indagine specifica e non coatta. La fluidità di questo processo, dal pachidermico al naturale, è scienza da apprendere e sviluppare e si richiede, come solito quando si parla di Team Ninja, di innalzare il proprio livello attraverso il progressivo affinamento personale. Difficile tornare indietro, il gioco unisce 2d e 3d in un modo non molesto e soprattutto non piega il franchise a filosofie troppo distanti da ciò che Metroid è sempre stato.
MOM è un gioco equilibrato, perché il suo equilibrio non si basa su di sé ma su un’idea classica suggerita dalla sua tradizione. Per produrre qualcosa di bello, è necessario che via sia il rispetto per l’armonia, della simmetria, del ritmo e dell’estetica classicamente intesa per avere dei capisaldi empirici di soddisfacimento di esigenze formali. Ma tutto ciò può essere ritrovato anche in Prime. Quello che distingue MOM è lo rende forse più intrinsecamente prezioso del suo predecessore il costante appello alla dimensione immaginifica che si fa carico di decenni di suggestioni artistiche, soprattutto relative alla semplicità di gioco e alle qualità narrativamente orientate alla commozione. Separandosi da ciò che è consueto e relativo alla nostra epoca, MOM si relaziona in ad apparenze che non riguardano semplicemente la dimensione oggettiva e misurabile della realtà, attinge liberamente ad un libero gioco tra intelletto ed immaginazione che procura quello che Kant chiamava giudizio riflettente, vale a dire una sorta di archeologia emotiva. Irrompe dalle zone dimenticate della nostra memoria e opera un’azione di mimesis, vale a dire un precipuo rapporto fra una manifestazione esterna e una sensibilità interna.
Una sensibilità condivisa, in quanto videogiocatori, quindi apprezzabile in ogni modo. La storia di Ninja Gaiden si ripete e proprio questa è la forza di Team Ninja.
Riassumendo, MOM non è il miglior Metroid mai uscito. Il primo Prime (er…) tutto sommato, fu un appuntamento storico molto più significativo e irrinunciabile, di cui Echoes e Corruption non sono altro che ulteriori ridefinizioni del medesimo concetto. Al punto, francamente, che questa particolare forma di Metroid non avrebbe più nulla da comunicare oltre tutto ciò che si è già visto.
MOM, come ho già detto altrove, è un capitolo minore e dalla portata molto più limitata. La preferenza è da accordargli in virtù della direzione di questi ipotetici passi indietro, che qualificano semplicemente l’afflato minore ma che, in soldoni, si recano verso la direzione giusta. Vale a dire quella di un prezioso tesoro fatto di level design e giocabilità arcade smarritosi molti anni fa e che, tutto sommato, deve ancora trovare la sua quadratura del cerchio. Prime è stato un Metroid visto da un occidentale, molto carisma, molta scienza, molto pensiero, molto mestiere…ma anche la freddezza di un viaggio interstellare nel vuoto siderale. MOM è paragonabile al languore che scalda il cuore mentre si vede il finale di Capitan Harlock, L’Arcadia della mia Giovinezza. Una piccola storia con molto di personale da dire, un nuovo principio per tornare alla fonte di questa saga.
A prescindere dalla vostra adesione, vorrei sapere cosa pensate della questione.