TLDR: molto bello, indispensabile se si ha uno Switch.
Dopo tre run e mezza, di cui una a Difficile, credo di averne visto abbastanza per esprimere un giudizio.
Ho abortito la prima run dopo 5 ore e mezza perché, banalmente, non sapevo più dove andare. Ma l’errore era tutto mio. Quel che dovevo fare era semplicissimo ma, chissà perché, mi ero convinto che non si potesse fare, e dunque ho provato ad andare dappertutto, tranne che dove dovevo: un punto vicinissimo a quello dove avevo trovato l’ultimo upgrade, il meno utile del gioco.
Perché, diciamolo subito: la mappa di Dread è PAZZESCA. La miglior mappa mai vista in un Metroid (anche se, anche se... ne parlerò più avanti), non solo perché è straordinariamente chiara da leggere (dice tutto, tutto), ma soprattutto perché il modo in cui ti indirizza all’obiettivo successivo è, a mia memoria, ineguagliato.
Ed è un bene, solo un bene. L’essenza di Metroid non è necessariamente il perdersi in un ambiente molto aperto, anzi: questa caratteristica, portata all’estremo, è ciò che ha reso Prime una serie eccelsa, ma poco amichevole per molti giocatori. In Dread c’è una strutturazione del percorso SUBLIME, con piccoli indizi che fanno esclamare un “aha!” dietro l’altro al giocatore attento, e che per quello meno attento sono come preziosissime briciole di Pollicino. Basta un oggetto, posto in bella vista in una stanza già visitata ma prima bloccato da qualche ostacolo, per farti accendere la lampadina: sono già stato qui, ma da questa parte non sono andato. Ed è proprio di là che devi andare.
È giustissimo che sia così. La schiacciante dispersività di un Hollow Knight non deve essere considerata un pregio a prescindere, anzi. Il confronto tra HK e Metroid Dread è un manuale di game design: il primo gioco pensa che sia bellissimo farti perdere offrendoti una libertà di esplorazione con poche barriere, mentre il secondo scende nel più piccolo dei dettagli pur di offrirti sempre una strada piuttosto certa da seguire. HK ti porta fino al vicolo cieco senza remore, tanto hai altre strade da battere (ma ritornarci, porcaccia), però buona fortuna nel ricordarti, tra qualche ora, come tornare nel punto dove hai sbattuto il grugno; Dread invece ti mette continuamente l’esca sotto il naso per aiutarti a costruire la tua mappa mentale, affinché più tardi ti ricordi di quel passaggio dove avresti potuto fare, allora non sapevi cosa, ma adesso sì. E il modo in cui lo fa è un esempio per qualsiasi game designer.
Certo, l’approccio ha i suoi difettucci. Io, per esempio, ho storto un po’ il naso per la quantità di teleport, navette, ascensori. Ogni area ha una marea di interconnessioni, e l’obiettivo principale sembrerebbe quello di limitare il backtracking, elemento che da parecchio tempo viene sempre più lamentato dai videogiocatori, anche quelli scafati. Mercury Steam ha preferito mettere un teleport in più che farti ripercorrere mezza mappa X e mezza mappa Y solo per tornare là dove serve il gadget che hai appena trovato. E, non neghiamolo, ciò può creare una certa confusione, anche perché in alcuni frangenti Samus è costretta a chiudersi la strada alle spalle, e per tornare a prendere qualche oggettino sarà necessaria una lunga deviazione. Ma anche qui, il flusso del gioco e la strutturazione globale della mappa sono così esemplari che, francamente, questo appare come un male necessario per raggiungere un risultato più grande.
Prendendo a esempio il punto dove m’ero bloccato, potremmo obiettare una certa “elefantiasi” dell’inventario. Non solo Samus perde tutti i potenziamenti ogni volta, ma ne trova sempre più di extra. E come dicevo in apertura, quell’upgrade che avevo appena trovato e che non credevo di dover usare lì dove andava usato, torna utile letteralmente in tre occasioni in tutto il gioco, prima di essere sostituito da uno molto più versatile. E qui si rivela in pieno l’evoluzione dal vecchio al nuovo Metroid, che era già visibile in Prime 3 dove, palesemente, i poveri Retro non sapevano più cosa inventarsi per offrire qualcosa di nuovo senza rendere il tutto comicamente ridondante (e fallirono comunque parzialmente). Negli ultimi Metroid 2D, in nome del “facciamo qualcosa di nuovo”, si sono create troppe chiavi che servono solo ad aprire piccole serrature. Come la chiave in Resident Evil che apriva solo la soffitta del serpente, ma peggio, perché non di chiave vera e propria parliamo, bensì di un “potenziamento” che serve giusto giusto a raggiungere quello successivo, e poi nemmeno esiste più nel moveset di Samus. Non raggiungiamo lo squallore di quel gadget di Zero Mission che serviva ad appendersi alle sporgenze (!!!), ma il concetto è simile. È una soluzione a un problema che a malapena esiste, che potrebbe non esistere senza sconvolgere minimamente l’economia complessiva del gioco. È come comprare un paio di stivali per attraversare una pozzanghera, e poi toglierli e buttarli via.
Si tratta comunque di un caso isolato, perché tutti gli altri potenziamenti sono, non soltanto utili, ma davvero fighi da usare; specialmente i poteri Aeion, che invece di essere più “chiave” come in Samus Returns, sono molto versatili e servono anche in battaglia. Battaglia che è diventata dinamica come mai prima in un Metroid 2D: merito sicuramente dei 60FPS, senza i quali un ritmo del genere sarebbe stato improponibile. Gli scontri con i nemici normali e con i boss sono davvero, davvero divertenti, e il sistema di controllo, fluido, veloce e preciso come mai prima, ha un feeling che Metroid non aveva mai offerto. Le animazioni e il movimento di Samus sono impeccabili, ben lontani dalla lepre imbizzarrita di Zero Mission e dal recalcitrante carro armato di Super. Mercury Steam ha recuperato un po’ le movenze della Samus del primo Metroid, ma con più fluidità, più sprint, più mosse, e semplicemente farla muovere è un vero piacere. Persino la Supercinesi/Speed Booster, che non avrei mai creduto possibile in 2.5D e con lo stick analogico, funziona benissimo, ed è più versatile che mai. Anche se, dopo Zero Mission, non sono un fan dei puzzle basati sulla Supercinesi (avreste dovuto vedere la mia faccia ogni volta che rivelavo un blocchetto nascosto e lo trovavo arancione... come avere 4 anni, a mezzanotte meno cinque della vigilia, e ti dicessero che la slitta di Babbo Natale ha bucato), devo dire che funzionano, e non sono esagerati come in altri Metroid (in AM2R il programmatore ci si era sbizzarrito). E il wall jump, finalmente, non richiede più combinazioni di tasti e preghiere ai santi del videogioco: sbatti contro il muro, salti via per rimbalzare, punto. Mercury Steam è anche riuscita a limare i difetti di Samus Returns, dove le boss battle erano più legate alla mera ripetizione di pattern, in stile Rare: in Dread questi scontri sono più variabili, più “aperti”, con diversi approcci e un ritmo da vero action game, talvolta con qualche elemento da sparatutto vecchia scuola.
Ma è proprio dalle boss battle, e per estensione dagli EMMI, che prendo spunto per parlare di quello che è l’elemento più distintivo tra quelli che contrappongono il vecchio Metroid dal nuovo. Dread è, per dirla con un termine inglese, formulaico. È vero, il design della mappa è strepitoso e il sistema di controllo eccezionale. Ma le sfide che il gioco propone sono ripetitive, seguono un copione prefissato. La faccenda degli EMMI non ha nulla di speciale; a volte i robottini sono dei veri paciocconi e se ne vanno a spasso in stanze lontanissime da Samus, lasciandoci liberi di andare e venire senza problemi; altre volte rompono le palle in modo ignobile. Alla resa dei conti, però, non succede niente di eclatante. Si fugge fino al momento del faccia a faccia, e se falliamo ricominciamo dall’ultimo ingresso attraversato: anche se è andata male, basta insistere e riusciremo a spuntarla senza grosse sfide. E il faccia a faccia con un EMMI è sempre uguale, al netto della conformazione della stanza. La sfida con gli EMMI è formulaica fino al midollo, sempre uguale nella teoria e nella pratica. Tant’è vero che hanno dovuto inventarsi un paio di sorprese per non stancare il giocatore, nonostante i robot siano soltanto sette.
La “formulaicità” del gioco si manifesta anche in altri nemici, specialmente una serie di miniboss che si ripetono essenzialmente identici dalla metà del gioco fino alla fine, con minimissime variazioni che cambiano ben poco nella dinamica degli scontri. Perciò, arrivati alla fine, resta la sensazione che manchi qualcosa. Che, in alcune parti, si sarebbe potuto fare, ideare, osare un po’ di più. Un EMMI supercazzuto da affrontare testa a testa in modo diverso, più esaltante, più dinamico. Un miniboss che ti tira fuori qualcosa, che ti propone un QTE che non sia sempre lo stesso identico, che abbia un’arma diversa, un pattern diverso. Quell’idea che scaturisce dalle menti vulcaniche di Nintendo e che ti ricordi per tutta la vita, anche se dura 5 minuti ed è l’unico guizzo in un gioco mediocre (tipo una certa boss battle in Zelda Spirit Tracks, ecco).
Perché vedete, dopo aver spolpato Dread ho rigiocato a Super Metroid e, porca miseria, non c’è una stanza uguale all’altra, una situazione sovrapponibile a un’altra, un momento dove dici “questo l’ho già fatto”. Non c’è una-volta-una che il gioco ti chieda di rifare pedissequamente la stessa cosa; ogni power up ha un approccio diverso; un piccolo elemento riesce a creare un contesto e una situazione sempre diversi. Super inoltre “osa” offrirti la Gigabomba prestissimo, cosa che sembra divenuta quasi una bestemmia a partire dal 2002, e la sfrutta come un elemento dell’arsenale di Samus alla pari di qualsiasi altro, invece che come gatekeeper degli ultimi gadget nascosti e delle ultime barriere tra Samus e lo scontro finale. A confronto di Dread, Super Metroid è un discreto chiavicozzo da controllare, ma ancora oggi non c’è un Metroidvania (o un Metroid!) che sia riuscito a ricatturare la medesima magia. La strutturazione della mappa poi, benché non sopraffina come in Dread dove davvero nulla è lasciato al caso o all’interpretazione, è comunque superlativa, motivo per cui sono un po’ reticente a definire Dread l’apice assoluto della serie sotto questo aspetto. Insomma, dopo 25 anni sto ancora scoprendo e ammirando il modo in cui hanno disegnato il mondo di Super Metroid, per piccino che sia secondo gli standard moderni (nel 1994 sembrava infinito, i ricordi mi dicono che ci vollero dei giorni per trovare qualcosa che oggi trovo in meno di un’ora di gioco). E per quanto la narrativa di Dread sia poco invadente, non riesce a replicare la strabiliante potenza espressiva “muta” di Metroid 2 e Super, né può eguagliare (nemmeno ci prova) il world design monumentale della serie Prime.
Tirando le somme, dunque, a partire da Fusion, Metroid 2D è diventato un eccellente, divertentissimo gioco, ma ha perso qualcosa in termini di carattere, di espressività, di unicità. Va però riconosciuto che, come gioco, ha pochi eguali: il gameplay di Metroid si mantiene ancor oggi diverso da quello di qualsiasi altri Metroidvania, con un ritmo, un flusso, uno svolgimento che nessun emulo, nessun epigono riesce davvero a offrire nella stessa misura. Non è la mappa, non è il nocciolo ludico di salti, upgrade e scoperta di nuove strade: quasi tutti i giochi del genere hanno capito quegli elementi e se ne sono appropriati in modi anche straordinariamente efficaci, ma Metroid continua ad avere quel quid in più che nessun altro ha. E quel quid, squisitamente ludico, ha probabilmente raggiunto la sua massima espressione in Dread, che è un gioco che uno inizia 4 volte in 10 giorni perché è una droga ed è maledettamente difficile staccarsene, altro che “non lo rigiochi”. E la sfida è tarata benissimo, perciò non si capisce come un Jaffe, che stando all’anagrafica dovrebbe aver iniziato con gli arcade e l’Atari, lo trovi eccessivamente difficile e intricato. No, Dread è veramente una miscela di gameplay che rasenta la perfezione. Non può farmi rivivere le emozioni dello scontro con Mother Brain che ancor oggi ricordo dal 1996, non è il labirinto soffocante del Metroid originale su NES, e nella ripetitività di certe situazioni (oltreché nella tamarraggine di certe scene) tradisce la sua origine occidentale moderna. Poco importa. Metroid Dread è un ottimo, ottimo gioco, che rivisiterò ancora e ancora, mentre di rigiocare da cima a fondo un Hollow Knight o un Ori non ho lo stesso impulso.