Ahò, più passano i giorni e i mesi e anche i minuti, e più questa cosa del "gameplay uber alles", del gioco che deve "divertire", mi scartavetra la wuallera.
Io ho passato l'ultima mezz'ora di Journey piangendo e ridendo e coi brividi lungo la schiena, qualcosa che raramente ho provato con libri, film, fumetti, musica e tutte le altre cosiddette arti.
Non me ne frega proprio nulla che non sia challenging. L'artisticità di un vg, la sua peculiarità rispetto alle altre forme espressive, dovrebbe risiedere solo ed esclusivamente nella capacità di comunicare con il fruitore attraverso l'interattività.
Per me il discorso è completamente all'opposto di quanto sostiene Dan. Sul videogioco pesa da trent'anni come un macigno quella seconda parola di cui si compone, gioco, che ne ha in buona parte decretato il destino fino ad ora.
Ma i tempi sono maturi perché ci si renda conto che l'interattività può essere utilizzata per creare ottimi giocattoli, oppure per generare esperienze estetiche e artistiche. I due elementi possono convivere, chiaro, ma anche esprimersi del tutto separatamente; il problema è che non abbiamo un nome per definire l'interattività senza il gioco in mezzo.