Peccato.
Peccato perché le qualità di The Order 1886 non sono poche né banali, semplicemente la conta dei difetti e degli aspetti irrisolti del prodotto supera di gran lunga le prime. Forse il problema risiede proprio nella sua natura ibrida, nella “non scelta” di una tipologia di esperienza coerente e coesa. L’impressione capitale e preminente è quella della discorsività narrativa attraverso lunghi e ben scritti filmati in game, complice anche una scrittura generalmente più ambiziosa e curata della media. L’ambientazione ucronica introduce a un’interessante rilettura del cavalierato arturiano in prospettiva steampunk e aggiornato sapientemente alle mode giovanili del momento. I valori produttivi in tal senso sono importanti e convincenti, la Londra vittoriana immaginata da Ready at Dawn è un universo saturo di oggetti e colori, di tessuti e luce filtrata, di legno, ferro, ottone e marmo, il compiacimento quasi wildeiano e dannunziano per il gusto estetico non abbandona mai il giocatore, deliziandolo e forse giustificando a sufficienza almeno una tornata. Non c’è ambiente e frangente che rinuncino a una ricercatezza quasi filologica dei tòpoi essenziali della letteratura storico-immaginifica di riferimento, complice anche una certa varietà in senso assoluto. L’imperialismo inglese del XIX° secolo, teso tra innovazione tecnologica e slancio verso i misteri lussureggianti dell’esplorazione di paesi lontani, è ben scandito dal formalismo dialogico di personaggi e protocolli. Per questo e altri motivi, l’attraversamento di The Order 1886 è un piacere.
Il problema si pone nel momento in cui ci si interroga sulla modalità di questa esperienza. Le cutscene interattive portate avanti da QTE è pratica triste e dura a morire, per quanto sia un metodo efficace per sviluppare una narrativa studiata all’interno di precisi binari. E fin qui si sapeva. La beffa arriva nel momento in cui quei brevi ed episodici sprazzi di gameplay arrivano addirittura a divertire, tanto da rimpiangerne un ipotetico incremento numerico. Nulla di nuovo o particolarmente ricercato, ci si muove nella funzionalità dello sparamuretto, qui ridotto a un’essenzialità meno mobile del modello Uncharted. Diciamo un mix impacciato a metà strada tra un Resident Evil 4 e un Gears of War, eppure ci sono 3-4 sparatorie tese a Difficile (tra cui il tanto discusso apice finale, che io ho trovato godibilissimo) che con qualche accorgimento in più avrebbero potuto sostanziare alla grande un titolo incerto tra due identità: il film videoludico pretenzioso e lo shooter dinamico alla moda. Invece gravano sull’esile scheletro videoludico quei raccordi fatti di arrampicate goffe, di disimpegni lineari e pretestuosità interattive, restituendo la spiacevole idea di titolo creato ad hoc per il primi tempi di vita di una console. Ossia quel gioco che viene elevato oltre le sue effettive qualità a causa dell’urgenza di stupore e di novità dell’utenza, destinato però successivamente alle pieghe della memoria fino al definitivo oblio.
Quindi peccato. Ma alla fine con Bloodborne e Batman in giro perché attardarsi qui?