Avevo perso The Neon Demon al cinema, e dopo averlo visto a casa un po' ne sono dispiaciuto. Perché essendo fortemente basato sull'estetica, è un film che andrebbe goduto in un ambiente che ne valorizzi al massimo i colori, i suoni, i bianchi, le musiche, i contrasti, i silenzi, i neri, le assenze.
Pazienza.
In ogni caso, finalmente l'ho visto. E potrei provarlo a vendere come un capolavoro, se non fosse che mi rendo conto sia un'opera estremamente divisiva, totalmente asservita a una concezione artistica forte, personalissima, e pertanto sicuramente opinabile.
La storia, ridotta al minimo, potrebbe essere raccontata in un cortometraggio. Eppure, il regista ne fa un'opera di due ore. Due ore che sembreranno tanto più lunghe quanto più si ascolterà il proprio orologio interno anziché ci si perda nella sontuosità di una narrazione così dilatata da sembrare eterea.
Il montaggio infatti si rifiuta di usare accelerazioni o rallentamenti, tutto focalizzato com'è a tenere sempre e solamente a fuoco le sorprendenti costruzioni della fotografia, gli strepitosi intrecci tra musiche e scene, i definitivi passaggi negli atti che non permettono allo spettatore né di tornare indietro con la memoria, a cercare il perché si sia arrivati a quel punto, né di immaginarsi il possibile sviluppo, per svicolare da una situazione sì attesa ma risolta comunque diversamente da come si sarebbe ipotizzato.
La tensione del montaggio è tutta qui. Nell'ancorare la visione al presente, nel non concedere spazi altri che non siano propri del film. O si è dentro, e lo si vive come un'esperienza al limite dell'arte performativa; o si è fuori, e allora qualsiasi critica sensata è pure legittima, e altranto pure al di là del merito.
Idealmente diviso in tre atti, mostra ben presto di essere interessato poco alle vicissitudini dell'iniziale protagonista e di voler invece mostrare la disumanità di un ambiente che ha la sua ragione d'essere nel piacere effimero della bellezza naturale, nella ricerca spasmodica e delirante di una bellezza artificiale, nella violenza come unico mezzo per la sopravvivenza. Per arrivare a questo obiettivo, la narrazione fa un uso minimalissimo dei dialoghi mentre privilegia scene oniriche, simboliche, dalla struttura asettica, riflettendo così visivamente la freddezza emotiva dei personaggi coprotagonisti. E seppure la fotografia sia a dir poco curatissima, anche nelle scene più cruente la regia mantiene sempre il timone ed evita di rendere pulp dei momenti che, decontestualizzati e raccontati a ignari, creerebbero perlomeno un senso di disagio, se non di netto fastidio. Invece, no; qui assecondano sempre la visione generale: fare una critica ferocissima al mondo della moda, usando il suo stesso linguaggio.
Promosso come horror, in realtà potrebbe essere sbrigativamente descritto come un film sui vampiri d'oggi, con le architetture gotiche sostituite dalle superfici di acciaio su cui riflettono luci stroboscopiche, e con gli organici cori di archi inghiottiti da cupe sonorità sinstetiche. Ma qualsiasi definizione se ne voglia dare, rimane un'opera più vicina all'arte, al divertissement d'autore, che non a un prodotto d'intrattenimento. E quindi, da valutare con criteri altri.