Settempre parte II
Partiamo dall'immensità scoperta questo mese:
I Cancelli del Cielo (1980) di Michael Cimino 5/5 ♥♥♥♥♥♥♥
Quest'anno Quentin Tarantino ha infilato 8 persone in una locanda del Wyoming e ha creato un terreno di scontro che si facesse metafora delle fondazioni stesse della nazione americana: odio e sangue.
Trentasei anni prima Michael Cimino, all'apice dello sforzo produttivo della New Hollywood, ci mostrava lo stesso attraverso uno storico massacro avvenuto nel Wyoming senza alcun filtro metaforico, ma solo la grandeur permessa nell'era in cui la visione di grandi registi poteva farsi reale senza alcun limite derivante dal budget o dalle pressioni produttive.
Il risultato fu un flop commerciale colossale e la fine di un'epoca d'oro, ma anche uno dei più grandi capolavori della storia del cinema. Immenso.
Mi sconvolge che la critica all'epoca possa averlo devastato tanto da relegarlo ad uno dei peggiori film di sempre. A livello cinematografico non riesco sinceramente a trovare difetti. Ipotizzo che l'imposizione quasi dittatoriale di Cimino sulla produzione (che in ogni caso non mi pare molto al di sopra di quanto non facesse un Kubrick) abbia portato Hollywood a reagire alla cosa manipolando l'opinione generale diffondendo le storie della sua produzione, oltre ad averne massacrato brutalmente il montaggio. In ogni caso uno delle più grandi ingiustizie della storia del cinema. Visto in versione restaurata in sala.
Poi in ordine cronologico di visione:
I Figli dell'Uragano (2016) di Lav Diaz 3/5
Primo Diaz che vedo, ho scelto di partire dal più corto. Di certo gli riconosco il talento fotografico e il suo stile (che nonostante la lentezza non riuscirei a definire contemplativo) si adatta perfettamente alla materia documentaristica narrata.
Si vive letteralmente con i bambini, si osservano per interi minuti i loro tentativi di estrarre qualcosa di ancora utile dalle macerie dell'uragano che ha spazzato via qualsiasi cosa. La bellezza naturale delle Filippine è anche la loro maggiore trappola, le città sono ridotte ad un ammasso di rifiuti e i bambini, privati delle proprie famiglie, vivono in baraccopoli disastrate. Natura e paesaggio antropico si confondono, le navi arenate sono le nuove scogliere. La devastazione è ovunque. Anche se privi del luogo in cui vivere, anche se costretti ad adattarsi alle condizioni durissime, l'infanzia non risulta spezzata, i bambini non cessano di dedicarsi alla ricerca incessante del gioco (come rappresentato dal ralenty finale).
Nonostante possa comprendere le motivazioni di Diaz, non posso che definirmi deluso però dal risultato complessivo. Il talento fotografico è innegabile ma mi sembra che tutto il resto sia estremamente rozzo. La qualità dell'audio è imbarazzante (soprattutto se poi ti affidi ai rumori naturali, quel vento così te lo registra meglio mio fratello per il filmino del matrimonio), le poche sezioni con camera a mano mancano di stabilizzazione ed il montaggio è pressapochistico a dir poco. I tagli mancano di ogni forma di continuità e ce ne sono almeno un paio di cui non sono riuscito a comprendere il senso. È un film che indubbiamente ti cresce dentro durante la visione (soprattutto quando un dialogo verso la fine del film contestualizza tutto ciò che si è visto in precedenza, da un senso del tutto nuovo a quelle immagini) ma il risultato complessivo mi ha lasciato molto freddo.
Follia e Amore (2013) di Wang Bing 4/5
Tour de force impressionante all'interno di un manicomio cinese, o per meglio dire un singolo piano del manicomio. Girato interamente in digitale con camera a mano, la camera da presa riesce a raggiungere un livello di mimesi quasi perfetto con il luogo documentato. Non si tratta però di una mimesi "oggettiva" che cerca di guardare all'istituzione nella sua complessità, quanto di un tentativo di immersione nelle personalità che quel manicomio sono costretti (purtroppo) a viverlo.
Persone di ogni età, sesso (anche se la prevalenza è maschile) ma NON estrazione sociale (chi sta lì proviene spesso da una famiglia povera impossibilitata a pagare le spese mediche) che impariamo a conoscere nel loro ripetersi quotidiano. Malati di ogni genere che vivono in condizioni igieniche terrificanti e con assistenza quasi nulla, se non quella dei dottori che passano le medicine giornaliere e intervengono nel caso dovessero rompere qualcosa o diventare aggressivi. Una coppia sposata che viene visitata dal figlio, un uomo separato dall'amante che vive al piano di sotto, un ragazzo che ammazza il tempo correndo intorno all'edificio. Persone che vivono in questa trappola da anni o da pochi mesi, alcuni che si aggiungono nel corso del film e che probabilmente saranno destinati a non uscirne più. La follia sembra essere l'unica cosa che possa portare una flebile speranza, quella impossibile di poter uscire prima o poi, anche se infinita è la disperazione dei consapevoli che da quel manicomio non si potrà uscire mai più. Alcuni cercano calore umano come ultima fonte di luce all'interno dell'incubo. Diceva bene Basaglia in Italia: una situazione del genere un può far bene al malato che può finire al più a rinchiudersi ancora di più nella malattia, non è una soluzione socialmente ed eticamente accettabile.
In tutto questo lo stesso stile di ripresa scelto è asfittico, camera a mano che non dà mai modo di osservare altro che non siano le camere che ospitano i malati e il corridoio quadrangolare circondato da sbarre attraverso cui vi si accede, ripreso sempre in lungo e senza avere mai la possibilità di avere uno sguardo netto sull'esterno. La sensazione dopo le 4 ore di durata del film è quella di aver passato la vita rinchiusi al suo interno, asfissiati e intrappolati come gli altri malati. Articolando in questo modo una critica forse più profonda di quanto possa esserlo qualunque discorso possibile a riguardo. Ed anche uno sguardo in grado di dire qualcosa di fondamentale sulla cina odierna. Forse un po' ridondante, ma necessario.
Ad un certo punto, per pochi minuti, vediamo un paziente avere un permesso temporaneo per poter uscire dalla struttura. La camera da presa lo segue nel suo ritorno a casa. Come sarà la vita in quella breve ma agognata libertà? La risposta è desolante e agghiacciante.
I Soliti Ignoti (1958) di Mario Monicelli 4.5/5
Il padre della Commedia all'Italiana è anche un film incredibilmente fresco e godibile ancora oggi. Straordinaria parodia dell'heist movie riportata in un contesto italianissimo che non smorza, ma anzi amplifica l'elemento comico ma anche la sottile critica sociale che permea l'opera.
Vedere Gassman, Mastroianni e addirittura Totò in un ruolo che oggi siamo abituati ad accostare a certi grandi attori hollywoodiani non può che causare un sorriso. E che interpretazioni grandissime.
Un film che dal primo all'ultimo minuto rimane foriero di battute divertentissime e momenti iconici. La cosa migliore è che il film riesce a farlo senza ridicolizzare o smitizzare il soggetto di base (come accade in un sacco di pessime parodie odierne), le classiche fasi di organizzazione della rapina sono rispettate e rappresentate con il massimo dell'aderenza al genere, è soltanto l'alchimia fra il gruppo di rapinatori a far fuoriuscire l'elemento comico.
Mantenendo però un sottofondo sempre dolceamaro, quel filo di rassegnazione che fa emergere dalla risata anche uno sfondo drammatico in grado di rappresentare il sentimento dell'Italia dell'epoca. Il ruolo sociale del cinema passa di testimone dal precedente neorealismo a questo nuovo genere di commedia.
Un appunto sul finalissimo, quel "guarda che ti fanno lavorare!" ci starebbe benissimo ancora oggi per descrivere l'italiano medio. Bellissimo.
Florentina Hubaldo, CTE (2012) di Lav Diaz 3.5/5
Una donna, Florentina Hubaldo, è ormai traumatizzata da una vita sconvolta da un'infinità di violenze sessuali subite a causa dell'avarizia del padre alcolizzato, che la vende in cambio di una manciata di spiccioli (all'inizio del film il suo valore è ridotto a meno di quello di una capra). È riuscita a salvare Lolita, una delle tante figlie avute a causa degli stupri, affidandola ad una famiglia, ma la sua salute è cagionevole, probabilmente riflesso delle violenze subite dalla madre. Intanto due fratelli cercano di trovare un tesoro nascosto dal padre nella loro proprietà prima di morire. Ma, come dirà un amico dei due, "è inutile che scavate, qui c'è solo morte".
Diaz utilizza il personaggio di Florentina come simbolo del trauma che ha subito il suo paese. I tempi fluviali non sono usati per descrivere un'epopea, la storia narrata non è di certo ampia o eroica. Piuttosto sembra usare il tempo per meditare sulla sofferenza portata dal trauma. Il film è narrato in maniera non lineare e si sofferma sulla ripetizione eterna della tragedia. Le memorie della ragazza emergono spontaneamente e portano a rivivere le angosce dei ripetuti stupri (che non vengono mai mostrati direttamente ma sempre fatti percepire attraverso le sue urla disperate), la realtà si distorce portando alla mente ricordi d'infanzia (una festa popolare con gigantesche marionette, un'usanza portata nell'isola dai colonizzatori spagnoli) alternando tutto con sequenze in cui sembra che lei si distacchi dalla realtà, giocando e innalzando le mani al cielo, quasi a chiedere aiuto allo spettatore. Tutto questo si alterna allo scavo incessante dei due fratelli, protesi a cercare all'infinito un tesoro che potrebbe non esistere (anche questo forse a rappresentare il paese?). C'è un momento di rottura fra i due dovuto ad un motivo abbastanza stupido che non penso di aver ancora decifrato, però è fra i più potenti del film. Ho notato che Diaz tende a far parlare molto le immagini lasciando un sottofondo enigmatico per poi lanciarsi in questi monologhi/dialoghi rivelatori che danno un senso a quanto si è visto prima e sono spesso i momenti migliori del film.
In ogni caso indubbiamente la capacità maggiore di Diaz è quella fotografica. Riprende la natura in maniera incredibile e fa muovere i personaggi al suo interno in maniera organica. Alcune immagini sono folgoranti, altre strazianti. Gli attori non sono professionisti se non ho capito male, e sebbene normalmente se la cavino (soprattutto la protagonista) in alcune scene ho avuto l'impressione che apparissero troppo innaturali e non riuscissero a sottolineare bene i momenti.
Nel complesso direi che il film mi sia piaciuto, anche se sono stati pochi i momenti in cui il film è riuscito a colpirmi profondamente.
Indagine di un Cittadino al di sopra di ogni Sospetto (1970) di Elio Petri 4.5/5
Film che scardina le basi del poliziesco investigativo per offrire una delle più interessanti analisi sulla natura del potere che abbia mai visto al cinema. Agli inizi degli Anni di Piombo il comandante della sezione omicidi della polizia uccide una donna, intenzionato a dimostrare la sua intoccabilità di fronte alla legge. Lentamente il film ci rivela la natura conflittuale dell'uomo, attraverso i flashback che mostrano la natura perversa della sua relazione con la donna assassinata e il suo muoversi in modo contrario a come qualunque omicida intenzionato a non farsi scoprire si comporterebbe. Un personaggio quasi dostoevskiano, forse uno dei più complessi mai apparsi sullo schermo, interpretato da un Gian Maria Volonté semplicemente in stato di grazia. Grandissimo film, quanta roba interessante facevamo noi italiani una volta.
Diamonds of the Night (1964) di Jan Němec 3.5/5
Esperimento molto interessante. Due bambini fuggono da un campo di concentramento, il film (brevissimo, poco più di un'ora) segue la loro fuga come se fosse un flusso di coscienza, in cui immagini della durissima realtà che stanno vivendo, improvvisi squarci nei ricordi del passato e materializzazioni a schermo dei loro pensieri e delle loro paure si alternano senza soluzione di continuità. Interessante anche il lavoro fatto sull'audio, che insiste sui piccoli dettagli sonori per immergere lo spettatore nel fluido onirico che compone il film.
Probabilmente il precursore assoluto di tutti quei survival movie arricchiti da inserti onirici/metafisici alla Essential Killing o il recente The Revenant, nonostante il seguito però risulta ancora unico ed interessante per diversi aspetti. Merita una visione.
Swiss Army Man (2016)di Dan Kwan & Daniel Scheinert 1/5
Doveva farmi ridere? Non mi ha fatto ridere.
La Classe Operaia va in Paradiso (1971) di Elio Petri 4/5
Nel secondo capitolo della sua "trilogia della nevrosi" Petri analizza il mondo operaio, sempre attraverso l'esplorazione ravvicinata di un personaggio contraddittorio interpretato nuovamente da Gian Maria Volonté (su cui non bisogna manco spendere parole, grandissimo).
L'alienazione, i rapporti fra operai e dirigenti, i sindacati, i movimenti studenteschi sono tutti oggetti di lucida osservazione e critica da parte dello sguardo analitico dell'autore, attraverso la solita regia nevrotica che segue il punto di vista del protagonista (bellissimi i balletti ossessivi delle macchine che riesce a mettere in scena in fabbrica).
Nel complesso però non riesce a raggiungere l'eccellenza del film precedente, non tanto per demeriti propri quanto per incredibili meriti di Indagine, che è riuscito a trovare un punto di vista unico per una tematica abusatissima, laddove questo (nonostante ancora incredibilmente moderno) soffre del mostrare qualcosa che, anche se magari non nella sua totalità, è stato già mostrato in opere precedenti e successivi con un occhio critico più o meno simile. In ogni caso bellissimo film anche questo.
Frantz (2016) di Francois Ozon 2/5
Un pippone melodrammatico di incredibile potenza trituramaroni.
Frantz è un soldato tedesco morto in guerra, la sua fidanzata Anna e la famiglia sono ovviamente distrutti. Si presenta un francese alla porta che dice di essere un suo amico. Questo nasconderà un (prevedibilissimo) segreto che aprirà il film a una varietà di discorsi su cosa significa mentire per non far soffrire le persone che si amano e banalità assortite. Ovviamente con il solito discorso manicheo sui tedeschi che odiano i francesi e viceversa, l'amore fra le due parti non corrisposto ecc.
La cosa che più mi ha infastidito, oltre ad una sceneggiatura melensa e insopportabile in più parti (ma c'è un modo più prigro introdurre allo spettatore un personaggio morto del fare il solito "Frantz era così e cola e gli piaceva il quadro di Monet e l'autunno era la stagione bellissima e bla bla bla") è quest'aura finta autoriale che vorrebbe avere, con tanto di bianco e nero usato malissimo perché si nota lontano un miglio che il film non è stato pensato così ma decolorato in seguito e scene in cui il film si ricolora nel senso più banale concepibile, una cosa che secondo me doveva nascere e morire con Heimat visto il numero di volte in cui l'ho visto usato in modo sensato. Spero che gli altri di Ozon non siano così se no sai che palle.
La Proprietà non è un Furto (1973) di Elio Petri 1.5/5
Petri, che mi combini! Dopo due film così belli mi realizzi qualcosa di così inconcludente, finto, teatrale fine a sé stesso. Dopo essere riuscito a creare film capaci di combinare in maniera eccellente il tuo discorso "a tesi" di stampo politico e sociale con personaggi memorabili senza che il punto di vista scavalcasse le necessità cinematografiche ti rifugi nel peggior film concettuale possibile... Niente da fare, l'ho detestato per tutta la sua durata. Peccato.
Todo Modo (1976) di Elio Petri 3.5/5
Ecco, ora ci siamo! Ancora un po' troppo caricato in certi aspetti, ma decisamente funzionale nel mostrare l'incancrenimento della DC durante gli anni 70. Con un Gian Maria Volonté ancora una volta maestoso in un ruolo chiaramente ispirato alla figura di Aldo Moro. E un Marcello Mastroianni che, sinceramente, mi è sembrato un po' più debole del solito nella sua interpretazione del "prete cattivo" don Gaetano.
Nel mezzo della tempesta politica di quegli anni un gruppo di figure eminenti della politica, della magistratura e nell'industria si rifugia per un "ritiro spirituale" all'interno di una struttura sotterranea appositamente adibita allo scopo. Le riprese indugiano nel mostrarci la caustrofobicità del luogo e di come le divisioni più grandi nel partito si manifestino qui dentro. Un improvviso omicidio cambierà le carte in tavola, mostrando come forse qualcosa del male che ammorba l'esterno si stia lentamente insinuando anche nel gruppo di potenti lì presente.
Ennesimo film di aspra denuncia politica da parte di Petri, non raggiunge la forza dei primi due capitoli della sua "trilogia della nevrosi" ma è comunque meritevole.
One More Time with Feeling (2016) di Andrew Dominik 4/5
Un perfetto accompagnamento per quello che è, al momento in cui scrivo, il mio personale Album dell'Anno. Così si fa un bianco e nero e una transizione al colore, impara Ozon! Alla fine mi è dispiaciuto addirittura non esserlo riuscito a vederlo in 3D, ho avuto l'impressione che riuscisse a sfruttarlo benissimo.
Il film si compone, come l'album stesso, come una lunga e dolorosa elaborazione del lutto. Che però non ha nessuna intenzione di essere una mera pornografia del dolore. Molte delle canzoni dell'album sono state scritte prima del tragico evento che ha colpito Cave, la morte del figlio quindicenne. Ed il film non indugia mai sul racconto strappalacrime. Come dice Cave stesso, il trauma si è manifestato più come una forza distruttrice, che ha inizialmente limitato la sua creatività, per poi andare a formare l'humus intrinseco dell'album.
Il film inizia singhiozzando, senza aprire nessun discorso preciso, come se l'idea stessa di un evento così doloroso non possa essere toccata in nessun modo possibile. Poi lentamente inizia la musica, e lentamente il film si apre. Il film alterna frammenti introspettivi di Cave, fra una lunga intervista in auto, la vita in studio e a casa con la moglie Susie, alle canzoni dell'album, in cui la camera da presa si muove, rotea, si libra in area, aggirandosi tra i corridoi dello studio come uno spettro. Un po' come dice lo stesso Cave all'inizio quando parla della sua concezione "elastica" del tempo, per quanto si possa cercare di allontanarsi, sublimarsi nella musica fino a raggiungere le vette astrali di Distan Sky (non per nulla unica parte a colori), il ritorno traumatico continua a tornare. La stasi e il movimento, l'impossibilità di razionalizzare totalmente il trauma. Bellissimo.
Film dell'infanzia, bellissimo.
Da piccolo mi metteva tanta tristezza Cameron che fissa il dipinto sotto Please please please...
Ma tutta la scena del museo è intrisa di dolce malinconia.
Bellissimo Una Pazza Giornata di Vacanza. Scena nel museo sublime.