incollo vari commenti delle testate giornalistiche:
Mariuccia Ciotta Manifesto
A sorpresa entra nell’affollatissimo cartellone di Venezia 61, 3-Iron del coreano Kim Ki-duk, autore premiato con l’Orso d’argento alla Berlinale 2004 per Samaritan Girl suo anche Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera (candidato all’Oscar 2003). Arrivato a catalogo chiuso, è definito, appunto, «film a sorpresa». E lo è stato a sentire l’applauso scrosciante dei festivalieri al Palagalileo, dove convivono da anni distributori, produttori, laque, pubblico e giornalisti. E’ difficile valutare perciò l’accoglienza critica di un film. Se è piacevole, a lieto fine o mainstream, la platea si scioglie in ovazioni, se invece è enigmatico, azzardato, dilatato in «fuoriorario» allora giù fischi e «buuuu» come è successo a un altro titolo in concorso Birth dell’inglese Jonathan Glazer. Insomma, mutazioni della Mostra...
L’happy-end va costruito dai primi fotogrammi, è un’intenzione, difficile. Tutto il cinema lo desidera come fuoriuscita da sé, dal mondo logico, per essere rivoluzione permanente del reale. Kim Ki-duk ci riesce con la sua storia di fantasmi coreani che sono insieme di carne e ossa e puro spinto... chiunque è un fantasma, volendo, capace di rendersi invisibile, presenza nella mente di qualcuno. In un paesaggio urbano dalle linee essenziali, virato sull’azzurro, come può essere Seul o un emporio di high-tech o un fumetto manga, si muove a bordo di una moto argentea uno strano ragazzo, visitatore metodico di appartamenti di lusso, in assenza dei proprietari. Non è un ladro, anzi, il suo massimo piacere è riordinare la casa e lavare a mano gli indumenti che trova in giro, silenzioso, si prepara zuppe di riso, thé, sente musica, guarda la tv e gioca a mini-golf.. Gli piace anche manomettere strumenti di precisione come orologi e bilance, tanto per alterare il corso del tempo e sfidare la forza di gravità «Siamo tutti case vuote, e tutti aspettiamo qualcuno che rompa la serratura e ci renda liberi» dice il regista. L’intrusione negli appartamenti altrui sembra un gioco di interferenze esistenziali in una Corea gelata dalla spaccatura del paese, sempre catatonica e inerte nel suo cinema. Finché lo strano ragazzo, una specie di Peter Pan che ha perso la sua ombra e va a ricercarla nei cassetti altrui, si imbatte in una moglie sottomessa, vittima del marito violento. Fuggono insieme, muti, fanno squadra in quel toni assurdo di casa in casa, violando la privacy di sconosciuti. Lui viene arrestato e in carcere migliora la sua performance di fantasma. C’è e non c’è. Fa impazzire il secondino, che non lo trova mai nella cella. Diventa ombra, si mimetizza, fugge. Traiettoria impazzita come le sue patine da golf torna a casa dell’amata e conviverà con la coppia senza farsi mai vedere dal marito in un minuetto comico-fiabesco.
Fabio Ferzetti Il Messaggero
Entra nelle case altrui, ma non è un ladro. Mangia quello che trova, usa bagno e camera da letto avendo prima verificato che i padroni siano in viaggio, lascia tutto in ordine e fa pure il bucato. Ma non è un folle o un maniaco, è il personaggio di cui si parlerà quest’anno a Venezia. Protagonista del film-sorpresa tenuto in serbo da Muller per il concorso, La casa vuota ovvero Ferro 3 (è una mazza da golf) del coreano Kim Ki-duk, il giovane resta senza nome e senza voce, giacché in tutto il film non apre mai bocca. Però è un tipo che molti vorrebbero incontrare. Una presenza discreta e in fondo benevola, un “riparatore” che guarda dentro le cose (le case) e le aggiusta. La pendola non funziona, la radio si sente male? Il giovane silenzioso, che si sposta su una moto di grossa cilindrata, tira fuori gli attrezzi, controlla, sistema. Ma dalla casa all’anima di chi la abita il passo è breve, specie se l'infelicità si vede a occhio nudo. Così questo strano ospite, che di solito si accontenta di scattarsi delle foto mettendosi in posa davanti ai ritratti dei legittimi proprietari, come per rubare briciole di vite altrui, un giorno finisce per intervenire concretamente. Prima convivendo in tacito accordo, senza contatti, con la giovane dal volto tumefatto che da un paio di giorni lo osserva, dentro casa propria, non vista. Quindi difendendola e fuggendo con lei quando rincasa il marito, aggressivo e meschino, non senza prima punirlo con una scarica delle sue amate palline da golf (di qui il titolo, Kim Ki-duk resta un regista fisico e crudele). E’una strada senza ritorno. Compromesso con le umane vicende, questo angelo sotto mentite spoglie che vive l’amore al contrario (niente baci, si comincia dalla fine, la parte più difficile: la convivenza) dovrà sporcarsi le mani; ferirà o forse ucciderà per sbaglio una sconosciuta; riparerà dando pietosa sepoltura a un estraneo trovato cadavere in casa propria; per questo finirà in galera. Da cui uscirà, in una applauditissima terza parte, ormai invisibile. Per tornare a vivere con la sua amata, alle spalle del marito che non può vederlo. A meno che non sia tutto un sogno, o non sia già nell’aldilà. Ma Kim Ki-duk è troppo sottile per dar spiegazioni, e riesce in un salto logico - dal fisico al metafisico - con naturalezza assoluta. Prodezze da atleta, chi ha visto Primavera, estate, etc ., sa di cosa stiamo parlando. E poi, siamo franchi, come resistere a una riproposta profana del caro vecchio angelo custode?
Tullio Kezich Corriere della Sera
Salvo errore, la formula del «film sorpresa» fu inaugurata una trentina d’anni fa al festival di Avoriaz per creare curiosità intorno a una pellicola inserita in programma all’ultimo minuto. Da allora ogni tanto qualcuno riprende il giochetto e così ha fatto la 61ª Mostra presentando in concorso Binjip, l’opera più recente del regista coreano Kim Ki-duk. Si tratta dell’autore del bellissimo Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera, ingiustamente trascurato l’anno scorso dalla giuria di Locarno; ma forse i soloni del Lido si comporteranno in modo diverso.
In questo piccolo film, realizzato in cento giorni, i due protagonisti sono praticamente muti. Lee Seoung-yeon gira col motorino per attaccare pubblicità sugli usci delle case, in modo da scoprire attraverso la mancata rimozione del cartiglio le dimore disabitate nelle quali infilarsi. Da un «nido del cuculo» all’altro, il giovane incontra la modella Jae Hee, mal maritata con un tipo manesco. Proseguendo in coppia il surreale itinerario, Lee e Jae finiscono nei guai quando in una delle case visitate trovano un cadavere. Accusato di omicidio, bastonato dalla polizia e chiuso in cella, il giovane scopre la dimensione mistica del «non esserci» e avvalendosi di tale conquista può ricongiungersi all’amata sotto il tetto coniugale in barba al marito che non lo vede.
È una metafora paradossale che nel corso di un’ora e mezza si dipana coniugando con rara eleganza leggerezza e profondità. Studente d’arte a Parigi, Kim Ki-duk sta nel solco della visionarietà di Antonioni che tuttavia personalizza con una tonificante dose di ironia e una spiritualità orientale. Vedi nel protagonista il rituale, emblema di disciplina e pulizia interiore, di lavare la biancheria e riparare gli oggetti nelle case occupate.
Valerio Caprara Il Mattino
Il film-sorpresa è finora anche il migliore del concorso: «La casa vuota» ovvero «Ferro 3» (il nome di una mazza da golf) del giovane coreano Kim Ki-duk - appena ammirato nelle nostre sale per «Primavera, estate, autunno, inverno...» - è intelligente, imprevedibile, intrigante nel mescolare il fisico col metafisico, la fluidità narrativa con l'eleganza di confezione e recitazione. Il protagonista è un atletico giovanotto che in tutto il film non pronuncia neppure una parola, limitandosi, dopo aver verificato che i proprietari siano assenti, a introdursi nelle case altrui non per rubare bensì per mangiare quello che trova, usare bagno e camera da letto, riparare orologi, radio o bilance che non funzionano, scattarsi istantanee, fare il bucato e lasciare tutto in ordine. Solo una volta interviene concretamente, prima difendendo e poi portando via con sé una donna vittima delle violenze del paranoico coniuge: compromesso dal desiderio, l'enigmatico angelo custode entra però in una spirale senza ritorno.
Kim Ki-duk è troppo sottile e inquietante per affibbiare etichette fantasy, ma il fatto è che nell'avvincente scioglimento il protagonista umiliato e offeso diventa invisibile: massacra i cattivi con una pioggia delle amate palline da golf, rivisita teneramente i buoni samaritani e torna a vivere con la donna alle spalle del marito che non può percepire né la sua presenza né la loro felicità. Forse un sogno, forse un'allegoria delle umane (troppo umane) aspirazioni alla perfezione: ecco un film davvero «da festival», che va protetto dal caos del mercato senza per questo obbligare il pubblico alla solita doccia scozzese d'arte e d'essai.