Autore Topic: [muzik] Tool: universi interiori  (Letto 33442 volte)

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Offline teokrazia

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[muzik] Tool: universi interiori
« il: 03 Lug 2003, 23:10 »
Tool: universi interiori.


E’ possibile contestualizzare i Tool? Ma soprattutto: ha una sua utilità?

A differenza di gran parte delle proposte delle realtà musicali a cui venivano paragonati/assimilati nel corso degli anni '90, quello che i Tool ci hanno offerto attraverso 3 album pubblicati in 8 anni [“Undertow” [1993], “Ænima” [1996] e “Lateralus” [2001]] è quanto di meno catalogabile e facilmente definibile possa essere messo sul piatto da una band di moderno rock pesante. Le esigenze della critica e della mercificazione della proposta musicale da parte dei media e dei discografici, e il voler quindi a tutti i costi contestualizzare questa band, deve purtroppo cedere il passo ad una realtà assai differente e poco comoda.

I nostri furono inizialmente [“Undertow”] buttati a casaccio nel calderone alternative dalle parti di un certo post-grunge [TAD, Godsmack] per la capacità di coniugare un’anima talvolta intimista e tragica ad un suono corposo e d'impatto. Per altri aspetti la formazione capitanata da James Maynard Keenan fu accostata a realtà consolidate della scena noise alla newyorkese come Helmet ed Unsane, delle cui matrici la band a tratti non fa segreto, sebbene se ne affranchi per la dimostrata apertura verso soluzioni meno autoindulgenti e più cosmopolite. Qualcuno [a detta del sottoscritto con l’orecchio fino], ha trovato nei Tool del debut una versione post-moderna dei Jane’s Addiction: intuizione secondo me parecchio felice, peccato che più che la proposta musicale tout court calzi a pennello per questioni di spirito.

Facciamo un balzo di qualche anno nel futuro: 1996. Il grunge è ormai morto e sepolto [i Nirvana vivono solo nei cuori dei fan, mentre le altre fondamentali band di quella scena si trovano sull'orlo della crisi di nervi [Alice in Chains, Pearl Jam, Soundgarden]. I media musicali d'oltreoceano tuttavia non hanno il tempo per piangere: il crossover, la rinascita del punk [secondo me bufala epocale], ma soprattutto il new-metal e lo stoner sono i calderoni musicali in cui si muovono le realtà più interessanti del periodo. Ovviamente le nuove tendenze sono bell'è pronte ad alimentare nuovamente la ruota delle sistemazioni, delle classificazione a tutti i costi e quindi ad andare incontro alle esigenze di sintesi imposte dal mercato. Quello che appare straordinario dei Tool, è che si dimostrano nuovamente pronti a sfuggire a questi meccanismi anche con la loro seconda release sulla lunga distanza ["Ænima"]. Partiamo dal new-metal: le solite cattive abitudini imponevano l'inclusione dei nostri in quella che ai tempi era comunque una scena interessante e rispettabilissima. Tuttavia se ci sforza di fare alcuni singoli accostamenti [necessari per un genere dai territori e dalle linee base così sfuggenti] questi inevitabilmente cadono. Partiamo dai Korn: la proposta sonora dei nuovi divi del rock pesante americano si basava molto più sull'impatto sonoro, sullo shock quasi fisico e su un'alternanza degli umori che a partire da "Life is Peachy" cominciava a diventare stanca, quasi dovuta. Poco a che spartire la band di Keenan aveva con i Deftones, se non in alcune [tenete a mente questa parola] progressioni nei momenti più sfocati e nella "purezza" di certi passaggi vocali. Rispetto a queste realtà i Tool preferivano lavorare di cesello, prendersi tutto il tempo necessario per arrivare in fondo. I paladini del new [in seguito nu] metal sfoggiavano al confronto un impianto sonoro molto più fisico ed immediato. Ma passiamo in rassegna altri paragoni. Qualcuno tirò in ballo il nome dei Filter prima maniera, ma onesto, sforzandomi posso arrivare ad ammettere che i nostri ne condividevano solo un certo retrogusto post-industriale ed una liricità [lontanamente] debitrice dei Nirvana. Ma non  finisce qui: prendete "Hooker with a Penis" per il sottoscritto si tratta tranquillamente di una stoner-song. Il problema è che il movimento [termine in questo caso molto appropriato, visto che c'è di mezzo anche una way of life] esploso in seguito al successo dei Kyuss, perdeva in quel periodo i propri beniamini mentre tutti gli altri [debite eccezioni a parte] persistevano nel riprodurre ad infintum i soliti concetti dimostrando scarsa propensione all'apertura [grazie a dio il genere conoscerà una seconda giovinezza qualche anno più tardi in seguito al successo commerciale dei Queen of the Stone Age]. Insomma i Tool non erano solo quelli di "Hooker with a Penis", ma molto di più [altro]. Ultimo paragone del caso, è quello che ha visto accostati i losangelini a realtà noise finalmente più aperte e ricettive come quelle rappresentate negli ultimi lavori di Prong, Killing Joke e Shihad. Rispetto alle nuove realtà sonore emerse grazie ai più recenti dischi di queste band, la formazione alle spalle di "Aenima" riesce a collocarsi in una dimensione tutta sua e per molti aspetti più [tenete a mente anche questa parola] lisergica.
Se proprio devo trovare una band parallela, cugina o comunque imparentata alla lontana con il gruppo in questione, tiro in ballo i Neuroris: provenienti dalla scena hardcore californiana di fine anni '80, e diventati un vero e proprio collettivo aperto negli anni successivi, con il loro "Enemy of the Sun" ed il successivo "Through Silver in Blood" misero su cd [e video] dei veri e propri teatri dell'anima. Gli unici a mio umile parere che meritano di essere accostati per affinità elettive ai nostri. Con la dovutissima precisazione che i Neurosis perpetravano un annichilimento totale dell'Io, una distruzione feroce ed apocalittica dell'anima, non offrendo salvezza alcuna.
I Tool invece, pur dotati di analoghe capacità di introspezione, non sempre e non necessariamente, sono mossi da intenti così iconoclasti e disperati, anzi la redenzione è spesso dietro l'angolo.

Insomma Teokrazia non ha nessunissima voglia di prendere la band così come rappresentata nei primi due album [scusate sono gli unici che ho ascoltato con cognizione di causa] e doverla ad ogni costo "sistemare" da qualche parte nelle grandi correnti che hanno generato le tessiture del rock moderno negli ultimi dieci anni. Cercare di fare un'operazione del genere è in questo caso più che in altri totalmente inutile ma soprattutto doloroso perché vorrebbe dire attentare alla varietà, alla freschezza di opere felici di stupirci brano dopo brano, di farci credere nella dimensione ideale di una forma-canzone a cui fare riferimento [affidamento], per spiazzare [e deliziare] l'ascoltatore attraverso soluzioni totalmente diverse un attimo dopo. Certo, alcuni sapori, alcuni ingredienti, alcuni umori trovano se proprio li andiamo a cercare alcuni termini di paragone [e per comodità il sottoscritto ne farà uso nella recensione di "Ænima"], ma la straordinarietà dei dischi in questione sta nel come e nel cosa è venuto fuori dalla modellazione [un termine non usato a caso] di tali influenze e radici.



L’immaginario Tool e la filosofia dell’immagine-non-immagine.

Alla luce di quanto detto, avrete sicuramente capito che la band californiana è un elemento più unico che raro nel panorama musicale internazionale, cosi come particolari sono le sue influenze, diciamo cosi, “filosofiche” (molto tra virgolette). Dai riferimenti alle teorie di Carl Jung sull’ Anima/Animus sino alle citazioni di Karl Marx, passando per la lacrimologia (teoria che ipotizza l’autoperfezionamento attraverso il dolore sia fisico che mentale), i Tool spiazzano sempre l’ascoltatore, con lavori mai banali o superficiali. La struttura che sta alla base del loro universo è una ricerca interiore senza precedenti e l’uso di qualsiasi mezzo artistico per portarla a termine. Nei lavori del gruppo le immagini e le parole sono importanti tanto quanto la musica. I video dei singoli sono tutti delle brevi storie direttamente collegate al tema dell’album da cui sono tratte, a diretto completamento del lavoro sonoro e letterario. Girati dallo stesso Adam Jones (chitarra), mettono in mostra tutto ciò che di oscuro si trova nell’animo umano, ma (quasi) sempre con uno spiraglio di luce finale. I protagonisti sono spesso delle creature deformi, a prima vista maligne, ma poi, una volta comprese vengono associate dagli spettatori alle proprie preoccupazioni, le proprie debolezze, che vengono in un certo senso stigmatizzate. La visione resta comunque disturbante e l’animazione in stop-motion (o passo-uno) rende i movimenti ancora più innaturali. Negli ultimi lavori (i video per “Ænema”, “Shism” e  “Parabol/Parabola”) sono state introdotte delle figure umane, ma non per questo meno inquietanti: sono infatti trasfigurate, grottesche, ripugnanti, ma al tempo stesso generano empatia con chi guarda, a dimostrazione di un lavoro di background estremamente complesso e dove nulla è lasciato al caso.
L’importanza delle immagini poi è visibile anche dal vivo, con la band quasi sempre in penombra e la scena lasciata al maxischermo dove vengono proiettate immagini sia dai videoclip sia inedite, per completare l’esperienza anche fisica che il live concede.
Tutto ciò però contrasta con la volontà dei Tool di voler far parte dello show-biz, di non apparire mai in video, di concedere rarissimamente interviste e di farsi vedere il meno possibile al di fuori dei concerti. Anche il voler pubblicare un album ogni tre/quattro anni contrasta con i dettami dell’industria discografica, nonostante un’urgenza creativa (testimoniata dai numerosi side-project che ogni membro della band ha intrapreso) molto superiore a parecchi di quelli che fanno un disco ogni sei mesi…
Insomma di cose da dire sui Tool ce ne sarebbero a centinaia, il mio consiglio è quello di cominciare a scoprire da soli le potenzialità della band, partendo da “Undertow” e ascoltando in ordine gli altri due, magari non facendosi mancare il boxset “Salival”, comprendente un CD con pezzi live e un DVD (o VHS) con tutti i video della band usciti fino al 2000 (mancano quindi “Shism” e “Parabol/Parabola”). Attenzione però: non pensiate di cavarvela con un ascolto e via; i mondi onirici e oscuri del gruppo hanno bisogno di pazienza, perseveranza e parecchia apertura mentale per poter essere apprezzati e capiti, una volta fatto però non li lascerete più, e la vostra realtà vi sembrerà molto più limitata…

I TOOL SONO:
Maynard James Keenan: Voce e testi
Adam Jones: Chitarra, creazioni visive e testi
Danny Carey: Batteria
Paul D’Amour: Basso
Justin Chancellor: Basso; sostituisce Paul a partire dal settembre 1995.

DISCOGRAFIA
[1992] Opiate EP
[1993] Undertow
[1996] Ænima
[2000] Salival (Live + DVD o VHS)
[2001] Lateralus


VIDEO REALIZZATI
[1992] Hush (Ken Andrews)
[1993] Sober (Adam Jones e Fred Sthur)
[1994] Prison Sex (Adam Jones e Fred Sthur)
[1996] Stinkfist (Adam Jones)
[1997] Ænima (Adam Jones)
[2001] Shism (Adam Jones)
[2002] Parabol/Parabola (Adam Jones)





 “Undertow” [1993, Volcano Rec.]

Una palude nebbiosa e umida. Un gorgoglio che proviene dal fondo delle sue acque putride. C’è qualcuno che sta venendo risucchiato al suo interno senza essere capace di reagire (o senza volerlo?). Il rumore prodotto è inquietante, la mancanza d’aria sembra stritolare anche chi lo ascolta.
Questo è l’incipit di “Intolerance”, prima traccia di “Undertow”, primo “vero” disco dei Tool, dopo l’EP “Opiate”, uscito l’anno prima e considerato una sorta di “prologo” a questo lavoro.
Il tema portante di “Opiate” era chiaramente la censura e lo stesso titolo (in italiano “oppiaceo”) si riferisce ad una frase di Karl Marx: “La religione è l’oppio dei popoli, che impedisce loro di svegliarsi e annusare l’odore del caffè”.
Perché vi dico tutto ciò? Che c’entra la censura con “Undertow”? Un attimo (o forse più) di pazienza.
L’argomento intorno al quale si sviluppa il disco è il controllo e la possessione.
Lo si capisce già dall’artwork: la copertina è completamente nera, al centro c’è l’immagine di una scultura che ricorda una cassa toracica con dieci costole (cinque a destra e cinque a sinistra). Sull’altra facciata della pagina c’è una foto di una donna grassa nuda distesa su un fianco. Aprendo il booklet si scopre un’altra foto, la donna di prima che stringe a se un’uomo, anch’esso nudo, che sembra dormire contento.
Guardando controluce la prima pagina (che corrisponde  alla copertina) si nota che la figura della donna si incastra perfettamente tra le costole della scultura.
Il significato è semplice: l’uomo è controllato e posseduto dalla donna (primo livello di possessione), a sua volta controllata da qualcos’altro (secondo livello di possessione), di cui i Tool non sanno/vogliono svelare l’identità.
Ma non è finita: all’ultima pagina si trova la riproduzione di una radiografia di qualcuno con un vibratore infilato nella cavità anale, segno che il possesso è totale e incondizionato.
Questo tema, ovviamente lo ritroveremo in tutto l’album, mentre viene analizzato e sezionato, ma non spiegato. Sarà l’ascoltatore a cercare le risposte ai dubbi che la band insinua nella sua mente; i Tool sono lo strumento che permetterà al poveretto di cominciare a credere di potersi svegliare e annusare l’odore del caffè.

Il disco si apre con “Intolerance”, che, come detto inizia con il campionamento di un inquietante rumore a sfondo acquatico. Tenete bene a mente la parola acqua, perché sarà il principale mezzo che i Tool useranno per spiegare la loro teoria.
Possiamo dividere le atmosfere del pezzo in due parti, la prima (composta dai versi) in cui Maynard Keenan (voce e testi) racconta, sussurrando le sue buone intenzioni verso qualcuno che lo ha plagiato e che lo sta controllando (primo livello); nella seconda invece esplode tutta la sua rabbia per essere stato tradito e usato. “Non volevo essere ostile. Non volevo essere malvagio. Non volevo marcire in un’esistenza apatica. Ma tu menti, inganni e rubi.” E proprio queste tre azioni, vengono ripetute ossessivamente per tutto il testo, con voce sempre più furente, a simboleggiare il distaccamento non ancora raggiunto ma compreso tra preda e predatore, tra posseduto e possessore.
Un possesso prima totale ma che ora comincia lentamente a sgretolarsi. Totale perché anche sessuale, come descritto in “Prison Sex” (la prigione del sesso, letteralmente). La canzone comincia con un giro di basso dal ritmo devastante, che continuerà, sostenuto magistralmente dalla batteria di Danny Carey, per tutta la durata della stessa, mentre Adam Jones esplode le sue violente frustate chitarristiche e la voce di Maynard snocciola con crudele realismo una storia di abusi e incesto.
La cosa strana è che “Prison Sex” non è affatto una canzone violenta, scatenata; no, la voce è calma, la musica incredibilmente orecchiabile, quasi a far da contraltare ad un testo spaventosamente crudo e disturbante/disturbato.
Dalle atmosfere allucinantemente rilassate di PS si passa all’incedere solenne, marziale, sepolcrale di “Sober” , che riprende certi stilemi tipici dell’ Hard Rock anni ’70 annegandoli in una pozza di catrame nero e bollente. Lenta, maestosa, alienante, anche in Sober c’è la presenza di qualcuno che, dall’alto osserva ogni nostra azione, influenzandola senza che noi ce ne accorgiamo: “C’è un’ombra proprio dietro di me. Copre ogni mio passo. Svuota ogni mia promessa…” . La declamazione lascia il posto allo sfogo nel ritornello: “Perché non possiamo essere sobri? Perché non possiamo bere per sempre?”, come dire: perché non possiamo liberarci da questa entità? La risposta (l’unica che troverete in “Undertow”) arriva nella traccia seguente, “Bottom”, ovvero fondo.
Finchè non si tocca il fondo, finchè non si arriva alla disperazione non ci si potrà rendere conto di ciò che ci è successo, e non si potrà nemmeno provare a liberarsi.
“Bottom” è una canzone per certi versi unica nell’universo Tool: la prima parte è molto veloce, in tipico stile hardcore fuso con sonorità metal, ma poi, a circa metà pezzo le acque si calmano e comincia una parte recitata nientemeno che da Henry Rollins. La potenza delle parole è devastante, la frase finale, con la voce di Rollins che declama granitica  sovrapponendosi all’urlo lancinante di Maynard incute dapprima paura per poi dare all’ascoltatore una scarica di adrenalina come poche altre volte si è visto e sentito, in grado di farlo esplodere dall’interno per far fuoriuscire tutta la propria (im)potenza.
“Crawl Away”, invece ha un inizio particolare: a bassissimo volume (tanto da essere impercettibile a tonalità normali) c’è il sample di una musica tradizionale sudamericana, forse proveniente dalle Ande, che introduce un riff potentissimo che sfocia nel martellante ammonimento: “allontanati da me…” . La progressione musicale è dapprima lenta nei versi, per poi farsi travolgente nel ritornello e nella parte finale, con parentesi strumentali stratificate ma orecchiabilissime. Il testo parla di qualcosa che ti attira verso se, ma che non riesci a respingere (“…but there’s nothing i could say…”). Questo concetto è ripreso magistralmente in “Swamp Song”: “I miei ammonimenti sono stati inutili, stai danzando nelle sabbie mobili…” . L’incedere, come in “Sober”, è maestoso, ripetitivo, oscuro come la palude che da il titolo al pezzo, metafora di un vortice nero dal quale non riusciamo a sfuggire, che ci porterà ad essere risucchiati dall’acqua, dai suoi flussi, “Undertow”, appunto, la canzone che da il titolo al disco, e che è la seconda tappa del viaggio alla ricerca della libertà dal controllo di cui si parlava sopra. L’attacco è subito pesantissimo, per poi farsi calmo e riflessivo durante le parti declamatorie e infine cambiare tempo due o tre volte. “Sono stato intontito da una voce che veniva dal profondo. E’ due volte più chiara del paradiso e due volte più comprensibile della ragione”.
Ormai abbiamo seguito la band dentro il tunnel, sotto l’acqua, risucchiati dai flussi, per accorgerci che la voce suadente che ci ha guidati qui sotto lo ha fatto solo per poterci controllare: una volta ripreso possesso di noi stessi ci siamo resi conto che fuggire, rompere le catene è possibile, basta solo aprirsi, come dice “4° Degrees”, pezzo criptico, con suggestioni medievaleggianti che, come ha specificato Maynard, non parla della violazione, ma dell’apertura (il titolo deriva dal fatto che la cavità anale ha otto muscoli contro i quattro di quella vaginale, risultando 4 gradi più calda…).
Il disco si conclude con “Flood”. Dopo una lunghissima intro strumentale estremamente complessa e ricca di sfumature prog-metal (anticipando i temi di “Lateralus” e certi momenti di “Ænima”), si parte in quarta con la voce di Keenan che racconta di un diluvio apocalittico che, al contrario di distruggere, purifica: “La terra si apre proprio sotto di me, afferrandomi e immergendomi nell’acqua" come dire che mentre tutto ciò che mi sta intorno sta crollando, io mi immergo in un bagno purificatore, ma, allo stesso tempo rimango ancorato a tutte le mie paure ed incertezze ("Tutto ciò che conoscevo, tutto ciò in cui credevo sta crollando e non mi conforterà a lungo”).
E’ la tappa finale del viaggio. Il prossimo passo dovrà farlo chi ascolta; dovrà trovare lui il modo (o la volontà?) di liberarsi da questo controllo opprimente e degenerativo.
Ma nonostante il trip liberatorio sia finito, c’è ancora spazio per una ghost track (anche se in alcune ristampe del CD appare come traccia a se): “Disgustipated”: Su una base di percussioni tribali, Maynard con voce sciamanica ripete incessantemente “this is necessary…”, non prima di un delirante monologo in cui, indossati i panni di predicatore folle intona un’ode alle carote (?!), chiedendo alla folla “…posso avere un Amen?”, “…posso avere un’ Alleluia?” e ricevendo in risposta una serie di belati di pecore. Ecco, questo è il punto di contatto con “Opiate”, il punto in cui si sviluppa il concetto base del Tool-pensiero, e cioè: “pensa con la tua testa e non permettere a nessuno di farti dire ciò che devi fare e pensare” .
“Undertow” è quindi, a parere di chi scrive, un piccolo-grande capolavoro, magari non fondamentale come i successivi lavori della band, ma un ascolto quantomeno obbligato, per comprendere tanto “Ænima” quanto “Lateralus”, dai quali si differenzia per una minor durata delle canzoni e per un’attitudine meno “pulita”, con sonorità più distorte e la presenza di quella che io definirei una sorta di “urgenza punk”. Sicuramente uno dei capisaldi della rinascita del rock avvenuta nei primi anni novanta. This is necessary

Andrea Corritore




 “Ænima” [1996, Volcano Rec.]

Partiamo dal contorno: l'artwork della copertina si dimostra perfettamente in linea con la filosofia della non-immagine intrapresa dalla band. Pur godendo infatti di una certa popolarità i Tool non amano sovraesporsi alla bolgia-massmediatica che li riguarda, ma tendono piuttosto a mettere in primo piano la musica. Questa scelta li porta a sacrificare aspetti come il divismo o l'immediata riconoscibilità come rock-band, in nome del concetto, dell'idea Tool: scelta che coinvolge anche i loro particolarissimi video, dove la band non appare mai, limitandosi a farsi rappresentare da riconoscibilissime [nello stile e nella forma mentis] dark-stories. La copertina di "Ænima" è sfacciatamente anonima ed impersonale: quasi completamente nera, viene spezzata nella sua monotonia da un qualcosa di luminoso posto al centro [l'Anima?]. Ai tempi circolava anche una versione alternativa, che presentava la stessa identica cover, con una moltitudine di occhi catarifrangenti visibili in controluce. Gli stessi occhi che si ritrovano all'interno del booklet [sarà forse il Terzo Occhio? quello dell'Anima?], il quale è visto dai nostri come occasione per fare una semplice, ma efficace auto-ironia: sapendo di apparire sul fronte delle release discografiche con la calma e l'avventatezza di un bradipo, i Tool ironicamente ci propongono le cover delle loro tantissime release precedenti [tutti fake ovviamente, alcuni dei quali veramente deliziosi...].

Passiamo alla produzione: il suono è potentissimo, pulito, cristallino. Le chitarre suonano molto pesanti ma soprattutto profonde, il basso [come da tradizione noise] è spesso effettato, mentre la batteria suona perfettamente piena e rotonda. Ascoltato oggi dopo sette anni a livello di mera qualità sonora il disco non perde nulla, ripeto nulla. Perdonatemi l'opinione strettamente personale, da questo punto di vista il disco in questione si fa apprezzare di gran lunga rispetto al più recente "Lateralus". Ascoltata da me velocemente in un paio di occasioni, l'ultima release dei nostri mi è apparsa sotto questo aspetto meno ricca e riuscita [ma forse era nelle intenzioni].
Piccola ma doverosa segnalazione per la durata delle canzoni: tirati via gli intermezzi ed un pugno di eccezioni, non c'è canzone di questo disco che rispetti una durata "standard", sono tutte song che si aggirano intorno ai sei minuti ed oltre. Questo dimostra più che mai che l'essenza dei Tool sia al di sopra di facili e distratti ascolti [i quali regalano comunque una certa soddisfazione], i nostri si prendono tutto il tempo necessario per il loro scopo. E' questa la caratteristica discriminante rispetto a realtà musicali se vogliamo simili: il lavorare di cesello, la volontà di procedere [a tratti] lentamente ma di arrivare in profondità, toccando corde emotive dimenticate e sepolte chissà dove. E ora sotto con la musica: Teokrazia ripercorre il viaggio [interiore] per voi lettori, per favore fategli compagnia fino in fondo [fidatevi: non sarete più gli stessi].

"Stinkfist": in apertura piccoli samples metallici ci introducono ad un riff di chitarra enorme, circolare, martellante, in perfetta sintonia con il work in progress di molte realtà noise; subentra il cantato, asettico, filtrato [sembra qualcuno che prega al telefono con il megafono in mano] e recitativo di James Maynard Keenan [d'ora in poi James], le chitarre rimangono in sottofondo, il basso intanto seduce profondissimo e sinuoso quando ecco che la song si apre in uno squarcio urlato ed anthemico assai melodico nonostante l'impatto sonoro che ne sta alla base. La song ripiega su quella che è a tutti gli effetti una forma canzone tradizionalissima [salutatela, la reincotrerete molto più tardi]: ancora strofa sommessa, ancora ritornello, poi un piccolo momento di travaglio [protagonista il basso, delle azzeccatissime percussioni tribali e lo stato di trance di James e delle chitarre]. Apparentemente non sembra esserci via d'uscita quando piovono letteralmente delle martellate a squarciare il buio e tutto assume un tono sereno e disteso, piccola alternanza di umori, quando la canzone trova finalmente conclusione in un intimo dialogo a spirale tra basso e percussioni etno. Sotto ora con la lunga e progressiva "Eulogy": la minimalista [e sciamanica] intro si diluisce in una song bipolare e travagliata. Il primo stato d'animo si presenta scarnissimo, decostruito in sospeso nel tempo e nello spazio alternandosi a più riprese ad uno stato d'animo più vigile, crudo e d'impatto dove i nostri sembrano riprendesi dal torpore a tratti mistico e contemplativo dell'incipit. Ma è James il vero protagonista: perfetto interprete di questo teatro [ancora una volta, fateci l'abitudine] dell'Anima, il singer si dimostra versatilissimo nell'assecondare e dare significato ai molti e spesso contraddittori umori della song. In conclusione lo troviamo intento ad interpretare un melodicissimo siparietto, prima che tutto venga ingoiato dal feed-back e da un epilogo che definire tellurico è poco.
La track numero 3, "H." ci offre qualcosa di molto cantabile, non so voi, ma a me ha fatto venire in mente come suonerebbero i Soundgarden più rock'n roll, con un cantante "gentile" proiettati 15 anni nel futuro [o forse a 15 anni luce di distanza]. Una tra le song più accessibili e riconoscibili già dai primi superficiali ascolti, ma dotata di una profondità straordinaria [piccola perla]. Breve interludio rumorista con "Useful Idiot" [sembra quasi una dichiarazione d'amore per il vinile] e sotto con "Forty Six & 2": basso dall'andatura vagamente orientale, percussioni tribali, James è così delicato da sembrare incorporeo, la canzone è gentile ed accondiscendente. La melodia di base tracciata da questo inizio viene portata avanti succesivamente alternando il registro: ora più urlato e deciso, ora nuovamente pacato e successivamente sviluppato in un crescendo che dopo alcuni momenti di travaglio verrà spezzato dalle marziali sfuriate chitarristiche.
"Message to Harry Mandback" è un siparietto alquanto allucinato e allucinante: una delicatissima melodia di pianoforte ed il volteggio dei gabbiani sono il romantico sottofondo ad una serie di messaggi rilasciati alla segreteria telefonica del tizio in questione. Sembra di essere in un film di Abel Ferrara: la voce incisa sul nastro insulta con scioltezza il destinatario del messaggio in tutte le lingue possibili ed immaginabili [fra cui anche un perfetto italiano [!]]. Da ascoltare.
La dinamica e dirompente "Hooker with a Penis" ci offre un saggio di quello che probabilmente sarà il blues'n roll [qualcuno lo chiama stoner] tra 50 anni: voce filtratissima e sopra le righe, riff di chitarra [again] circolari e gran lavoro della sezione ritmica. L'esplosività della song si alterna a parti più pachidermiche ed acide [sembrano i cugini newyorchesi dei Kyuss]: la versatilità della band a livello di mera esecuzione trova in questa song forse l'apice più alto. Il breve excursus di "Intermission" offre la melodia di base su cui poggerà il riff elefantiaco con cui si apre "jimmy" prima di sciogliersi nei soliti [ma mai stucchevoli] momenti di intima riflessione: a farla da padrone è un mood piuttosto confidenziale e sofferto, attraversato ogni tanto da alcune impennate nel volume [anche sonoro], che non vanno comunque ad impensierire l'umore di partenza.
Cambiamo totalmente registro con "Die Eier Von Satan": breve racconto messo in scena attraverso una struttura industrial devastante ed arricchita da samples ambientali [il rumore di una folla, quello che mi sembra essere il monologo di un dittatore [non conosco il tedesco, quindi accetto smentite [#1].
Siamo alle battute finali del disco, ma il viaggio [interiore] è ancora lontano dal compiersi: sono ancora tantissime le stanze dell'Anima che i nostri intendono visitare.
Sotto con la lunga, lisergica e tanto per cambiare progressiva "Pushit". Una delle song dell'album che rappresentano meglio ed in assoluto l'idea di viaggio a ritroso, inteso come operazione di ricerca interiore stratificata: le stanze dell'Anima visitate diventano [toh che strana parola] progressivamente accessibili, dalla più superficiale fino a quelle man mano situate sul fondo [se mai ne esiste uno] o al centro [se preferite]. E' in questi casi che il lavoro dei Tool riesce a mostrarsi all'ascoltatore in tutti i suoi intenti: una lenta e talvolta [intenzionalmente] sfocata lettura del nostro universo emotivo. La parola universo in questo caso assume anche un'accezione ulteriore: ossia infinita spazialità e quindi territorio di comunicazione, dialogo ed incontro con l'Assoluto. Scusate se talvolta esagero con considerazioni un po' out e strampalate, ma mentre scrivo il disco gira in sottofondo, ed è questo l'effetto che mi fa. Insomma chiamatelo space-rock, acid rock, suite psichedelica, rock progressivo post-moderno e lisergico o come diavolo vi pare, sappiate che dalle parti di questa canzone si viaggia, eccome. Siete pronti?
Ulteriore interludio ambientale ["Cesaro Summability"], e via con la titletrack "Ænima": questa volta i nostri [e noi con loro] se ne stanno con i piedi ben piantati a terra. Partenza affidata al solito riff-killer [il cui motivo sarà ripreso magistralmente dall'immenso lavoro basso], tiro molto "up" e sostenuto fino ad una parte centrale così delicata ed aggraziata da sembrarmi più che suonata, dipinta. La seconda metà della track non sarà nient’altro che una bellissima, articolata e mai paga rilettura di quella formidabile idea centrale. Trascendentale.
Ultimi botti: "(-) Ions" è l'ennesimo stacchetto "non suonato", in cui è l'elettricità [fonte della vita?] ad essere la protagonista. Un sample vocale [da uno spettacolo del comico teatrale Bill Hicks, uno dei modelli per la band] è invece il preludio per la lunghissima e conclusiva "Third Eye" [strano titolo...che dite, l'avranno scelto a caso?]. La song da una sensazione di spazialità formidabile, la parte iniziale ha un taglio ed un tono assai disteso e diluito, ma questo non le impedisce di maturare alcuni crescendo a tratti roboanti ed apparentemente insensati [sembra di stare al centro di un'acidissima jam session] che addirittura sfiorano il silenzio in quello che sarà il preludio ad uno sfogo dalla violenza metallica inaudita. Degnissima conclusione di un lavoro eccellente e senza tempo. Teokrazia colloca "Ænima" dei Tool fra gli imprescindibili dello scorso decennio. Un disco difficilissimo da raccontare: le tessiture sonore ed emotive messe in ballo dai nostri vanno prima ascoltate, assorbite e metabolizzate e poi [per chi è dotato di parecchio coraggio] eventualmente raccontate.
Chiudo con una piccola constatazione di fatto: a sette anni dall'uscita del disco, sono indicativamente all'ascolto n.1000, eppure ogni volta il viaggio è sempre diverso. Immortale.

[#1] E la smentita è infatti arrivata: il mio collega [Jello] ha fatto luce in merito, dicendomi che la canzone in questione non è altro che la ricetta di un dolce tipico tedesco [!]: le palle di Satana


Stefano F. Brocchieri



“Lateralus” [2001, Volcano Rec.]

Anno 2001. Lo stesso scelto dal maestro Kubrick per far iniziare la propria odissea. Ironia della sorte, è anche lo stesso anno in cui esce “Lateralus”, un’altra odissea, quella che i Tool propongono all’incauto ascoltatore. Dopo la materialità surreale dell’esordio (“Undertow”) e le esplorazioni degli universi paralleli e delle stanze dell’anima (che siano la stessa cosa?) di “Ænima”, stavolta la band californiana ci accompagna in un altro viaggio, più difficile forse, all’interno di noi stessi. I temi portanti dell’album sono la comunicazione e l’auto-guarigione, con l’intento di scandagliare i più reconditi spazi della mente umana al fine di poter far crescere il viaggiatore e di fargli raggiungere un altro piano di consapevolezza. Come in tutti i lavori dei Tool, l’artwork è fondamentale per iniziare il trip. La custodia è avvolta in un misterioso sticker nero, con il titolo del disco impresso e quasi illeggibile. Una volta tolto, appare il booklet in tutta la sua affascinante ermeticità. Realizzato dal pittore Alex Grey (http://www.alexgrey.com/) sotto supervisione della band, è composto da sei pagine di plastica trasparente, su ognuna delle quali è stampata l’immagine di un uomo composto da diversi “strati” come nei vecchi libri di medicina o anatomia: la seconda pagina lo mostra senza pelle, facendo vedere i muscoli, tendini, capillari ecc.  La terza lo mostra privo anche di questi apparati, con lo scheletro in bella vista. Nella quarta invece appare “sezionato”, con i polmoni, il cervello e le arterie ben visibili e con uno strano simbolo a forma di stella luminosa in prossimità della colonna vertebrale. Nella penultima è possibile osservare l’interno del suo cervello e dei suoi organi interni, ma, guardando bene, le ramificazioni della corteccia cerebrale sono state disegnate per formare la parola “god”. La prima pagina riporta dei disegni di quattro occhi fiammeggianti e un cono di luce, messi in modo che sovrapponendo le facciate si posizionino esattamente sulla mano, sul cuore e ai lati della testa dell’uomo. Sfogliando il booklet si ha la sensazione di trovarsi dentro una famosa scena tratta dal film “Stati di Allucinazione” di Ken Russel e, facendo un po’ di attenzione si può notare che la scritta “god” si forma gradualmente, con un effetto ottico particolare e incredibilmente affascinante. Il messaggio inviato da un simile (capo)lavoro è, nella mia personalissima interpretazione, legato allo “scavare” al proprio interno (con lo sticker nero che rappresenta una sorta di “barriera” iniziale che, una volta tolta potrà farci iniziare il viaggio) per cercare le parti da “riconciliare” con l’universo, con gli altri e la spiritualità giusta per farlo. Per questo l’uomo è stato creato a strati, e la stella a metà progressione rappresenta l’anima, che si trova al centro di tutto, come una sorta di bilancia. Dopo questa doverosa precisazione siamo finalmente pronti per partire. Il termine “Lateralus” è riferito sia ad un muscolo delle gambe sia (e più precisamente) al pensiero laterale, visto dalla band come unico modo per staccarsi dagli schemi mentali classici ed espandere i propri confini (in latino lateralus significa, appunto, laterale). Ed anche l’ascoltatore dovrà cercare di aprire la mente prima di immergersi in questo viaggio: “Lateralus” è un disco che chiede parecchio impegno, ma, una volta entrati nell’ottica sa dare molto, molto di più.

La prima tappa è la torrenziale “The Grudge”, il rancore. Una lunghissima (8 minuti e mezzo) cavalcata che parte con dei samples di strani rumori metallici per poi attaccare con un connubio devastante basso-chitarra-batteria e poi lasciarsi andare ad una fase “calma” che contrasta con la voce cavernosa di Maynard che pronuncia i versi. La song cambia totalmente atmosfera quattro-cinque volte, sempre usando la dicotomia calma-rabbia, che sfocia in un ritornello apocalittico e travolgente (“…and sinkin’ deeper. Confining. Defining. And we’re sinkin’ deeper…”). Poi, dopo una sorta di pausa di riflessione, in cui la voce assume sfumature dolcissime, la ripetizione ossessiva del comando: “let go”, porta un urlo lancinante, lunghissimo, soffocante, che rappresenta la liberazione finale dal rancore che attanaglia il protagonista, che lascia andare i propri demoni prima di iniziare la sua ricerca interiore che si dipanerà lungo il resto dell’album.
Come la quiete dopo la tempesta, ecco arrivare il cortissimo interludio strumentale “Eon Blue Apocalypse”, poche note di chitarra che rimandano, nella loro rarefatta semplicità, ad un piano di esistenza superiore e misterioso, ma ancora non raggiunto, solo intravisto e agognato.
Un cupo giro di basso introduce gli oltre sette minuti di “The Patient”, una canzone decisamante più tranquilla che mantiene una splendida tenuta ritmica spezzata da fulmini di chitarra e da parti sussurrate, appena percettibili, che richiamano l’essere pazienti, il saper aspettare il momento giusto, quello in cui si è finalmente pronti ad essere proiettati all’interno della propria mente. Nonostante la preparazione possa essere difficile e noiosa (“…this tedious path i’ve choosen here…”), non bisogna mai perdere di vista il proprio obiettivo (“…i must keep reminding my self of this…”). Appena finito di lasciarsi cullare dalle tranquille note di “The Patient” ecco un altro stranissimo momento di rumore, “Mantra”, alienante al punto giusto per prendere fiato prima del lungo viaggio che ci si para davanti. Viaggio introdotto dalle note acustiche di “Shism”, che subito lasciano il posto al devastante basso di Justin Chancellor, che tesse, con il ritmo delle percussioni, una trama ritmica epica e misteriosa la tempo stesso, in grado di piantarsi nella mente di chi ascolta per giorni e giorni. L’uso destrutturante e destrutturato della chitarra è evidente, e dopo una progressione di intensità crescente arriva un assolo che definire psichedelico è riduttivo. “Shism” è un po’ l’emblema del concetto di separazione-riconciliazione di “Lateralus”: sicuramente la miglior canzone sui rapporti interpersonali mai scritta, indaga la mancanza di comunicazione e la divisione  tra due supposti amanti (o fratelli?), espressa magistralmente dalla frase: “…cold silence has a tendency to atrophy any sense of compassion…”. Si tratta quasi della spinta data al protagonista per compiere il suo personale viaggio alla ricerca di qualcosa di più della semplice e piatta esistenza quotidiana.
Concetto ripreso e approfondito nella mini-suite composta da “Parabol” e “Parabola”. La prima è una sorta di introduzione della durata di circa tre minuti e mezzo, assolutamente priva di sonorità pesanti, in cui Maynard canta a bassissima voce, con in sottofondo un set di fiati tibetani. Lo stile è quello di una preghiera moderna, con un finale in crescendo che poi aprirà “Parabola”, canzone molto sostenuta e che può essere definita come il momento più veloce (nonostante i suoi sei minuti, per un totale di oltre nove) del disco, con un finale nuovamente calmo, semisilenzioso, appena accennato. Si tratta della seconda tappa del viaggio, la scoperta delle limitazioni del corpo e il suo necessario abbandono, anche se ancora non si conosce il modo di far avvenire tutto ciò o, forse, non è ancora il momento (“…this body, this body holding me, be my reminder here that i’m not alone. (...) We are eternal, all this pain is an illusion…”).
Dopo però si ritorna per oltre otto minuti coi piedi per terra ascoltando la potentissima “Ticks & Leeches”, unico, vero momento metal di “Lateralus”, veloce, pesante come il titanio e rabbiosissima, sia nella musica che nel testo, un attacco a 360 gradi contro qualcosa o qualcuno che non deve andare troppo a genio ai nostri. In un simile turbine di violenza c’è però anche lo spazio per un momento di riflessione, a circa metà pezzo, più di un minuto di suoni morbidi, accennati, tranquillizzanti, per poi ritornare all’improvviso nel dolore, nella furia, scandita dalla voce di Maynard, in questo frangente a dir poco spaventosa.
Il viaggio ricomincia con la title track, quasi dieci minuti di pura psichedelica industriale, dove finalmente si riesce ad abbandonare la zavorra rappresentata dal corpo e si inizia a vagare nel limbo che precede l’esperienza superiore che ci siamo prefissati di vivere all’inizio del disco. L’avvio è lento, progressivamente più definito e la voce, che fa la sua comparsa dopo parecchi minuti, appare rauca, riflessiva per poi scatenarsi in un climax ascendente magistralmente energico, pura divisione tra spirito e fisico con la mente che, finalmente, è libera di spostarsi dove vuole. Il lavoro di chitarra e batteria è straordinario, altro che le tanto sbandierate porte della percezione che tanto andavano di moda nei sixties, qui le porte non ci sono, c’è SOLO la percezione. Le tentazioni e le sfumature progressive rock viste in “Lateralus” vengono impiegate molto di più nella lunghissima, monumentale suite composta da “Disposition”, “Reflection” e “Triad”. Oltre venticinque minuti in tutto di pura essenza. Il viaggio è in pieno corso, stiamo correndo ormai dentro la nostra mente, che, strano a dirsi, ha la forma di un altro universo, nuovo eppure familiare. La partenza è lenta, anche questa sussurrata, con un tappeto di ritmi tribali (la batteria è accompagnata da un set di percussioni etniche diretto dal maestro di bonghi di Danny, Aloke Dutta). Si arriva progressivamente a staccarsi da terra, le traiettorie circolari della chitarra, il basso ipnotico, i campionamenti africaneggianti rimandano a posti lontani e sconosciuti. Ormai siamo a chilometri di distanza dal mondo “reale” (ma cos’è reale, a questo punto?), la voce è tranquillizzante, confortante, quasi lamentosa. Gli ultimi otto minuti strumentali (”Triad”) sono la degna conclusione del nostro trip lisergico-sensitivo. La catarsi è completa, si rimarrebbe per ore in questo nuovo piano, ma il rumore assordante di batteria e una registrazione distorta e confusa di un tizio che dice di venire dall’Area 51 ci riportano alla realtà.
E’ “Faaip de Oijad”, la delirante traccia finale, che ha l’ingrato compito di farci svegliare, perché ormai il nostro scopo è raggiunto, abbiamo provato la nuova esperienza, ora siamo di nuovo nel nostro vecchio corpo, solo con la piacevole sensazione di essere molto, molto più leggeri.


Andrea Corritore




Nota: questa collaborazione era stata pensata inizialmente per essere postata in [T]alk. La scarsa stabilità del forum ci aveva suggerito di chiederne la pubblicazione [previa ovvia riduzione] sulla Home page.
Gli impegni da cui sono presi i membri dello staff di TFP [con la conseguente lentezza di aggiornamento della Home] e la ripristinata stabilità del forum, ci hanno suggerito di postarla in [T]alk come previsto in origine. Buona lettura a chiunque voglia cimentarsi nel viaggio.

 Andrea Jello BiafraCorritore
                                Stefano F.TeokraziaBrocchieri

Offline fulgenzio

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« Risposta #1 il: 03 Lug 2003, 23:48 »
se fai lo stesso tipo di lavoro sui duran duran,lo leggo molto volentieri!
wild boys!



scherzi a parte,ottimo contributo.
ANCHE UN TANUKI PUO’ SORPRENDERE UNA TIGRE CHE DORME.

Offline teokrazia

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« Risposta #2 il: 03 Lug 2003, 23:52 »
Citazione da: "fulgenzio"
scherzi a parte,ottimo contributo.


Ma te lo sei letto davvero tutto? :shock:
Questo vuol dire che qualcuno disposto a fare il viaggio c'è... :P
Per i Duran² se proprio ci tieni [a me piacevano] potremmo farlo io & te :wink:

Offline Grendel

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« Risposta #3 il: 04 Lug 2003, 00:34 »
Signori, siete due pazzi.
Vi amo.
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Offline teokrazia

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« Risposta #4 il: 04 Lug 2003, 00:36 »
Citazione da: "Grendel"
Signori, siete due pazzi.
Vi amo.

 :P
Ma l'hai letto tutto??? :roll:
Avevamo questo articolo pronto da un cinquantina di giorni [forse un pò di più], era un peccato non fargli vedere la luce...E poi sto forum è pieno di estimatori dei Tool!!!

Offline KEFKA

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« Risposta #5 il: 04 Lug 2003, 00:39 »
ho letto solo l'introduzione(per ora) e già mi sembra ottima
ora stampo il tutto(:) ) e me lo leggo con calma
cmq quoto grendel, siete 2 pazzi :)

Offline Grendel

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« Risposta #6 il: 04 Lug 2003, 00:40 »
Citazione da: "teokrazia"

Ma l'hai letto tutto??? :roll:

Mi manca l'ultima parte, ma lo farò domattina perchè adesso non sono più in grado di rimanere sveglio....I commenti nei prox giorni. Ciao Teo, 'notte.
2.0

Offline nyx

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« Risposta #7 il: 04 Lug 2003, 02:03 »
Grazie ragazzi!!! :lol:
Adoro i tool!!

teo, quand'è che ascolterai per bene lateralus?

PS
perchè non mi scrivete qualcosa pure sui nin? :)

Offline theblackpages

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« Risposta #8 il: 04 Lug 2003, 02:16 »
Cadevo a pezzi dal sonno, ho intravisto questo topic: l'ho aperto col pensiero di leggerlo con la dovuta calma ed attenzione nei prossimi giorni. Poi ho deciso di dargli comunque un'occhiata: MA NON SONO RIUSCITO PIU' A SMETTERE, E L'HO LETTO TUTTO D'UN FIATO!

E' vero, l'argomento mi sta particolarmente a cuore, visto che i Aenima e Lateralus sono forse i dischi che ho ascoltato di più in assoluto. Ma non è solo questo. Dico solo una cosa: sulle riviste di musica che è possibile reperire in edicola, un articolo di tale profondità e validità SE LO SOGNANO! In esse trovano spazio soltanto interviste e recensioni. Questo è un saggio, scritto in maniera assolutamente impeccabile, con competenza e know-how, impreziosito dei riferimenti culturali più disparati (non mi stuferò mai d'elogiare la cultura del Teo).

Per cui, una sentitissima Tripla Lode a Teokrazia e Jello Biaffra. Un lavoro immenso, non soltanto per la notevolissima lunghezza ;).

Seguono alcuni estratti che mi hanno particolarmente colpito:
Citazione
La track numero 3, "H." ci offre qualcosa di molto cantabile, non so voi, ma a me ha fatto venire in mente come suonerebbero i Soundgarden più rock'n roll, con un cantante "gentile" proiettati 15 anni nel futuro [o forse a 15 anni luce di distanza].


 :lol: Troppo forte Teo, ma come ti vengono in mente ste cose?

Citazione
e sostenuto fino ad una parte centrale così delicata ed aggraziata da sembrarmi più che suonata, dipinta


Mitica questa metafora. Il Teo gioca sapientemente a risignificare il linguaggio, e non è certo la prima volta. ;)

Citazione
Come in tutti i lavori dei Tool, l’artwork è fondamentale per iniziare il trip. La custodia è avvolta in un misterioso sticker nero, con il titolo del disco impresso e quasi illeggibile. Una volta tolto, appare il booklet in tutta la sua affascinante ermeticità. Realizzato dal pittore Alex Grey (http://www.alexgrey.com/) sotto supervisione della band, è composto da sei pagine di plastica trasparente, su ognuna delle quali è stampata l’immagine di un uomo composto da diversi “strati” come nei vecchi libri di medicina o anatomia: la seconda pagina lo mostra senza pelle, facendo vedere i muscoli, tendini, capillari ecc. La terza lo mostra privo anche di questi apparati, con lo scheletro in bella vista. Nella quarta invece appare “sezionato”, con i polmoni, il cervello e le arterie ben visibili e con uno strano simbolo a forma di stella luminosa in prossimità della colonna vertebrale. Nella penultima è possibile osservare l’interno del suo cervello e dei suoi organi interni, ma, guardando bene, le ramificazioni della corteccia cerebrale sono state disegnate per formare la parola “god”. La prima pagina riporta dei disegni di quattro occhi fiammeggianti e un cono di luce, messi in modo che sovrapponendo le facciate si posizionino esattamente sulla mano, sul cuore e ai lati della testa dell’uomo. Sfogliando il booklet si ha la sensazione di trovarsi dentro una famosa scena tratta dal film “Stati di Allucinazione” di Ken Russel e, facendo un po’ di attenzione si può notare che la scritta “god” si forma gradualmente, con un effetto ottico particolare e incredibilmente affascinante. Il messaggio inviato da un simile (capo)lavoro è, nella mia personalissima interpretazione, legato allo “scavare” al proprio interno (con lo sticker nero che rappresenta una sorta di “barriera” iniziale che, una volta tolta potrà farci iniziare il viaggio) per cercare le parti da “riconciliare” con l’universo, con gli altri e la spiritualità giusta per farlo. Per questo l’uomo è stato creato a strati, e la stella a metà progressione rappresenta l’anima, che si trova al centro di tutto, come una sorta di bilancia


La precisione, la completezza, e l'intuito di Jello meritano davvero un plauso. Grande.

Intanto, continuo a maledire chi mi ha rubato Lateralus venerdì scorso. Certo, appena possibile lo ricomprerò, ma non sarà la stessa cosa. L'ho acquistato appena è uscito, ed è da allora che lo ascolto incessantemente. Ero troppo affezionato a quell'album, voi mi capirete di certo.

Siete davvero grandi ragazzi. Conserverò gelosemente questo articolo.

byeZ :)

tbp

Offline Floyd

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« Risposta #9 il: 04 Lug 2003, 02:34 »
carini i tool
ho ascoltato solo Lateralus  e Aenima, due buoni album,sopratutto questo l'ultimo composto da alcune suite veramente degne di nota

la strumentale Mantra penso sia ispirata agli esoterici culturi del rumore, i Popol Vuh

Offline El Significo

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« Risposta #10 il: 04 Lug 2003, 03:10 »
immensi i Tool...
Immensi anche Teokrazia e Klaus Flouride...
Grazie a tutti e tre...

Offline Druss

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« Risposta #11 il: 04 Lug 2003, 08:48 »
Perchè non lo proponete qui?
www.eutk.net

Nel forum, e tra i frequentatori del sito, ci sono parecchi estimatori dei Tool.

Offline ZionSiva

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[muzik] Tool: universi interiori
« Risposta #12 il: 04 Lug 2003, 11:13 »
Devvero un bellissimo pezzo, complimentissimi ad entrambi!
La qualità delle osservazioni e la freschezza dello scritto sono davvero a livelli alti, e l'argomento è tutt'altro che facile, inoltre. Io possiedo solo Lateralus (non ascoltato così attentamente come da Jello, inoltre), perciò purtroppo non ho una visione d'insieme che mi pemette di apprezzare davvero il vostro lavoro, ma la lettura è stata piacevole, degnissima dei migliori approfondimenti che circolano in ambiti professionali del settore. Ho particolarmente apprezzato la recensione di Undertow, a mio avviso il momento più elegante di sintesi tra informazione, idee e forma. La rece di Teo è molto buona, anche se i vari momenti di "dialogo con il lettore" credo facciano perdere potenza descrittiva al pezzo, ma è un peccato veniale ^__^
Ancora complimenti, a questo punto dovrò completare la discografia dei signori Toolici.
Approposito, ho notato una cosa, particolarmente in Maynard: al di fuori della musica predilige l'umorismo nonsense, sembra uno dei Monty Pyton piuttosto che un triste indagatore della psiche. La FAQ del sito degli "A Perfect Circle" è un capolavoro in questo senso. Da quello che leggo alcuni momenti del genere appaiono anche nei dischi, mischiati in maniera bizzara a robe macabre e sempre oblique. Confermate o sto delirando? :D
~~porcelina, she waits for me there
with seashell hissing lullabyes and whispers fathomed deep inside my own~~~~  What's So Funny 'Bout Peace, Love and Understanding?  Wag the dog.

Offline nyx

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[muzik] Tool: universi interiori
« Risposta #13 il: 04 Lug 2003, 11:22 »
Dovresti vedere il libretto di aenima, ci sono le foto
di una improbabile discogrfia dei tool (ovviamente inventata),
con copertine e nomi assurdi (gay rodeo!) :)

Offline siho

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[muzik] Tool: universi interiori
« Risposta #14 il: 04 Lug 2003, 13:37 »
Bisognerà che mi informi su questi Tool...purtroppo non li conosco ma ho letto questa opera omnia tutta d'un fiato e devo ammettere che mi ha invogliato parecchio.
Complimenti a Teo e Jello! :D