Il punto è che non è possibile paragonare la "correzione" negro-nero e l'(ab)uso della Schwa.
Il primo è un intervento dal costo linguistico ridottissimo.
Il secondo è una violenza linguistica.
Le persone, per rispetto, vanno chiamate (M/F) in base all'identità che affermano di sentire.
Nel caso di un uso generico (o plurale) dei termini, l'italiano usa il maschile ed è una regola innocua su cui non vedo motivo di intervenire.
Per chi afferma di avere una identità "non-binaria", e magari solo in quel caso, si può anche valutare di usare lo Schwa, proprio perché l'italiano non ha il neutro.
Ho evidenziato in grassetto le posizioni con cui non concordo. Le restanti riflessioni mi sembrano più che condivisibili.
Violenza: è una parola molto forte.
Come dicevo già in altri post, non si sta per ora parlando di una sostituzione sistematica e formalizzata, ma di proposte ed esperimenti. Utilizzati per il momento da chi ne sente il bisogno e lo ritiene giusto.
Facciamo uso di una lingua che cambia ormai in modo rapidissimo, a cui il mercato propone/impone a ritmo serrato anglicismi che avrebbero semplici ed efficaci traduzioni nel nostro idioma, e tuttavia diventano di uso immediato ancor prima di esserci anche solo potuti domandare se ce ne fosse la necessità (tablet, streaming, download... la lista è davvero infinita); per non parlare degli slang giovanili-popolari, anch'essi ormai rapidissimi e pervasivi nel mutare e imporsi... Ecco, in questo scenario in cui la lingua è senza confini e fluida per definizione, ibridata con l'inglese in ogni ambito del quotidiano, ripiena di neologismi che risultano la norma per alcuni mentre suonano come cacofonie incomprensibili a chi fosse rimasto - per età, formazione o contesto sociale - vagamente indietro, che motivo c'è di tacciare di violenza
proprio le (timide, propositive) strategie linguistiche inclusive?
Plurare maschile innocuo e non meritevole d'intervento: non credo che stia a te (né a me) valutare questa cosa, in quanto maschi. Una regola escludente può essere accettata o al contrario messa in discussione solo da chi subisce l'esclusione. Perlomeno in prima istanza. La nostra opinione può avere giusto un ruolo di supporto e a posteriori, ma non di più.
Faccio un paragone stupidissimo ma a mio avviso calzante.
Ci sono due fratellini, Ivano e Filippa.
La mamma, per comodità e risparmio di tempo/fiato, quando deve rivolersi a entrambi li chiama Ivan
I. "Ivani venite, é pronta la cena". "Ivani sù, è ora di alzarsi", eccetera.
Filippa, giunta l'età della ragione, ci riflette un attimo su e decide che non ci sta.
"Io sono Filippa, non sono un Ivano. Vorrei essere chiamata col mio nome, per favore. Oppure potresti chiamarci entrambi Filippe... Perché lui sì e io no? O un misto, non so, Ivanippi, Filane, vedi tu... Ma
non-sono-un-Ivano. Ivano è lui, ok?"
La madre sulle prime non sa bene come reagire, fa un po' di esperimenti, ne discute con le altre madri, prova, sbaglia... Insomma si domanda se non abbia sempre commesso un errore e quale sia nel caso il modo più sensato di porvi rimedio.
Ivano, dal canto suo, risponde sdegnoso: "mamma ci ha chiamato così da sempre, ha sempre funzionato, non vedo alcun problema e non c'è motivo di cambiare le cose".
(Ma una parte di lui, che alla sorella ci vuole bene, comincia in fondo in fondo a porsi qualche domanda).
La madre è ovviamente la linguistica, e per estensione la società nel suo complesso che si interroga con essa.
Filippa è tutte le donne, o perlomeno quelle che si interrogano su sè stesse e il mondo e cercano risposte.
Ivano è... tutti gli uomini, ma anche l'unico elemento reale di questa storia ^__^