No no, mi contengo, anche perché dovrei rivederlo per ragionarci bene sopra.
Bel film, diverso dalla poetica tarantiniana dell’eccesso e dell’ipertrofia sensoriale per rifugiarsi nella fruizione a più livelli. Un tipo di approccio che necessita diverse visioni, anche tecniche, perché credo sia materialmente impossibile cogliere tutto quello che è stipato in questo film, anche per una questione di conoscenza della storia statunitense di cinema e televisione. Quello che rende Tarantino, nei fatti, il regista forse più significativo di questa generazione, è la clamorosa cultura cinematografica, pop e di costume che fonda il suo cinema. La stessa che gli permette di giocare e mischiare registri diversi che da soli creano uno spettacolo difficilmente replicabile da altri.
Nonostante le ovvie differenze, “
C’era una volta a... Hollywood” si pone nel solco di “
Bastardi senza gloria”, a livello concettuale. Di base c’è la riflessione sulla capacità performativa del cinema che, attraverso la dimensione mistificatrice e illusoria, salva e può salvare, ma non senza sacrifici. “
C’era una volta a...Hollywood” è il manifesto del paradiso perduto di un mestiere e di mestieranti che faticosamente lavorano affinché lo spettacolo funzioni e tutto concorra alla buona riuscita, al lieto fine se vogliamo. Ma in questo caso il palcoscenico è quello della cronaca accaduta e conosciuta, vale a dire
l’assassinio di Sharon Tate da parte della Manson Family,
a cui s’intreccia la vicenda (parzialmente inventata) di Rick Dalton e Cliff Booth. Parte del valore della pellicola consiste proprio nella dimensione, come dire, meta-gossippara, poiché Tarantino colleziona una serie aneddoti dei vari set dell’epoca e ne riporta il sentito. E quando non c’è sicurezza né documentazione, il regista procede all’ipotesi divertita e la ricostruzione attraverso il dispositivo del ricordo personale. Che, per definizione, è speso arbitrario, soggettivo, esclusivo e compensativo/dispensativo della verità.
Si parla infatti di parti che riguardano
il siparietto di Green Hornet con Bruce Lee, l’ipotesi sulla morte della moglie di Cliff e varie figure che ho potuto riconoscere e ricordare. La versione alternativa del destino di Sharon Tate è proprio emblematica del senso ultimo della pellicola. E’ uno stuntman è prendersi il male della storia, è lui che si oppone come argine alla verità delle cose, la sua figura intercetta e nullifica quella follia che nel mondo reale ha impedito alla moglie di Polanski di vivere e perseguire i propri sogni. E’ il senso del cinema e la sua missione, che purifica il mondo imperfetto degli uomini e offre un’oasi di consolatoria utopia. “C’era una volta a...Hollywood” ha una doppia funzione citazionista: la prima è quella cinematografica, con il riferimento alle pellicole di Leone ed esemplificative di una certa stagione del cinema, americano ed europeo. La seconda è proprio l’incipit delle favole, qualcosa di non possibile, con personaggi emblematici che hanno un ruolo, con antagonisti e aiuti inaspettati e un finale che non può che essere positivo.
In ultima analisi, “
C’era una volta a...Hollywood” è un film mitologico, sia come tematica riguardante un mondo perduto e immaginato, sia come struttura e svolgimento. Eccellente.
Adesso una serie di osservazioni a carattere del tutto soggettivo, quindi non riconducibili a difetti del film ma solo al gusto personale.
- In un certo qual modo è il film di Tarantino che mi piace di meno. Questo si deve alla tematica che non m’interessa, al periodo storico affrontato che non m’intriga e a quella normalizzazione del suo stile che da una parte, come detto, è ricercatezza ma dall’altra mi ha fatto mancare qualcosa. Naturalmente, nella che possa essere anche lontanamente accostato alla parola “delusione” oppure al concetto di “opera minore”.
- Leonardo DiCaprio: che sia un bravo attore è sicuro però, allo stesso tempo, che sia un artista che cannibalizzi i propri personaggi è per me abbastanza evidente. Cambi film, cambi epoca storica, cambi trama ma trovo sempre quel modo di recitare sopra le righe che mi omogeneizza qualsiasi spunto interpretativo e le sfumature. Direi quasi che si tratta della versione contemporanea di una figura come Jack Nicholson, ossia non l’attore che si presta al personaggio ma la personalità che travalica i proprio mestiere. Nel bene e nel male.
- Non ho nulla da dire sul personaggio di Cliff Booth e men che meno su Brad Pitt come uomo e attore. Ma ho trovato che il nostro eroe sia arrivato a quell’età in cui sia passa da “
Caspita, è un cinquantenne che sembra un trentenne!” a “
Ok, non si può più permettere certe cose…”, in quanto, in alcuni frangenti, ho trovato la sua figura proprio al limite per rappresentare questo stuntman.
Un altro così è Tom Cruise, anche se infinitamente peggio.
- Rapporto immagini-colonna sonora. E’ un film più misurato e questa sobrietà s’è un po’ impossessata di quello che considero uno dei punti di forza del regista. Meno memorabile che in passato, almeno a una prima visione.
Tutto questo, ovviamente, non impedisce a Tarantino di confezionare l’ennesimo capolavoro. Non vedo l'ora di rivederlo.