Sulla bravura di attori e regista non aggiungo nulla a quanto si sa oppure già detto.
Mi interessava parlare di altro. La vera natura di questo film è presto detta: si tratta di una pellicola fortemente politica.
E, incredibilmente, si pone come seguito illegittimo di Django Unchained. Là dove questo insisteva e si concludeva con un’apologia della liberazione dal dato antropologico-culturale della schiavitù, TH8 si interroga sugli effetti successivi a quella liberazione sul piano squisitamente sociale. E lo fa invertendo i presupposti della riflessione storicistica, vale a dire accertare e denunciare la mancata accettazione della diversità razziale all’interno della società americana nel nostro tempo corrente, illustrando come essa abbia fallito proprio sul nascere. Al contrario della fantascienza che usa il futuro per spiegare le storture del presente, Tarantino usa il passato per comunicare il medesimo concetto, l’abolizione della schiavitù fu una vittoria di Pirro per la società americana. Ma perché?
Il continuo richiamo a Lincoln e alla sua missiva inesistente è del tutto puntuale, l’artefice di questa clamorosa vittoria non si è preoccupato di preparare il suo mondo alle conseguenze nefaste del mescolamento di razze. Il promulgamento della ratifica al tredicesimo emendamento della Costituzione Americana del 1865 ha permesso a circa quattro milioni di neri di riacquistare immediatamente la libertà, evento che non si è tradotto assolutamente nel loro riconoscimento di cittadini. Sappiamo tutti come questo atto mise in moto una serie di eventi che portò all’uccisione di Lincoln da parte di un sudista facinoroso. Ma come si innesta un corpo estraneo in una critica massa di intemperanze sociali che all’epoca formava la nazione americana?
La danza di cacciatori e prede a cui assistiamo nel film è simbolicamente intrecciata ai loro archetipi sociali, per cui le schermaglie dialettiche vanno oltre i fatti e le nefandezze per nascondere le insanabili dinamiche sociali dell’epoca e quelle attuali, tali e quali. Difatti l’odio del titolo non trova in effetti troppi riferimenti nelle figure dei personaggi, poiché questa qualità non si riferisce nell’identità in sé ma in quello che rappresentano. E attenzione, gli otto sono stilizzazioni di controparti politiche in cui si rispecchia gran parte della società americana (e non solo…), a partire dalla figura del soprannominato “Boia”, il cacciatore di taglie interpretato da Kurt Russell. Il suo personaggio è stolido e violento, eppure si intravede l’emblema del sistema giudiziario americano che unisce la ricerca quasi pietista della Regola come fondamento di civiltà (processo + esecuzione) a cui si unisce l’efferatezza che garantisce questo stato di diritto. Per l’America il processo in sé rappresenta la concretizzazione cristallizzata che in sé è garanzia di equità.
E che dire del personaggio di Samuel L. Jackson, un nero pasciuto a guerra e cattiveria, un afroamericano la cui ferocia è intagliata nell’orgoglio ferito di un paese che non lo riconosce? Ma non è semplicemente riferito al suo personaggio ottocentesco intra-film, è il richiamo consapevole e disincantato al giovane uomo di colore di matrice martinlutherkinghiana politicizzato che risponde alla violenza con la violenza della giustizia negata. Il poliziotto bianco contro cui inveire, che nel nostro discorrere quotidiano fredda con un colpo di pistola l’uomo di colore della strada provocando un grido lungo decenni, inizia qui in questo preciso momento storico fatto di ghettizzazione, violenza e segregazione razziale. Mai sanato, mai risolto, semplicemente lubrificato dalla vasellina del sogno americano che come una glassa stomachevole si distende coprendo ogni cosa con un fetore di cadavere. E la figura de messicano, così preciso nel tratteggiare le difficili tensioni tra due paesi confinanti? Non c’è personaggio che non illustri più di quanto mostrato narrativamente, ulteriori visioni non possono che rafforzare questa idea.
Per cui, l’ambientazione western giustifica il setting, a cambiare è poi la tipologia di film, una partita a scacchi psicologica sul modello di “Dieci Piccoli Indiani” di Agatha Christie rivisto secondo la poetica tarantiniana dello spazio chiuso e delle esplosioni di violenza. Un compiacersi di verbosità stralunate che ha il preciso scopo di abituare lo spettatore alle relazioni formali tra le apparenze dei personaggi, con minuti ingranaggi che vanno a posto lentamente, a volte anche con fastidio. E’ la costruzione di una messinscena ossessiva, artificiosa e disturbante, con le sue iniziali punturine di violenza inflitte al pubblico attraverso il volto percosso e tumefatto della donna.
Con elementi distonanti, non avete compreso come la colonna sonora di Morricone non sia affatto western ma horror? Con suoni ricorsivi e assordanti ripetizioni troncate dal silenzio. E che dire della voce fuori campo che tutto conosce, anche gli esiti di due secoli dopo? E l’orrore su cui sono state gettate le fondamenta del moderno stato americano, novello Impero Romano fondato sul sangue e sudore degli schiavi e successivamente intriso di cattolicesimo metastatico e distorto nelle sue componenti di misericordia, al posto di una realtà non più eticamente sostenibile. Non avete visto il crocefisso imprigionato nel gelo come testimone silente di una tragedia nazionale su cui la telecamera si sofferma ipnotica e insistente, fino a dare fastidio a causa del carico simbolico di quella figura fredda e rattrappita? Il sacro indugia e muore lì.
E può esistere una violenza così necessaria come quella gratuita di questo film? Come si armonizzano le differenze se non con la loro rimozione coatta basata sulla paura della carne scaturita dall’istinto di conservazione, fino a cancellare l’identità dell’altro con due colpi di pistola che non permettono di riconoscerne più i tratti? E’ un gioco al massacro dell’accettazione dell’altro, ad ogni colpo di pistola esploso corrisponde un mattone del mausoleo funebre di questo paese iroso e violento che non sa aiutare la diversità. Non è gusto per l’effetto sanguinolento, trattasi in realtà di pulizia etnica bella e buona a mezzo estetizzante.
E chi si salverà in cotanta carneficina? La risposta è ovvia.