Ultimamente, grazie a Kindle Unlimited (periodo gratuito) prima e agli sconti Kindle in questi giorni, ho fatto una piccola abbuffata di Calcare.
Una volta abituatisi al suo shtick non è più così facile scoppiare a ridere di colpo come feci alla Feltrinelli qualche anno fa, quando ancora potevi sederti con un libro e leggere respirando aria. E bisogna dire che la sua prima opera completa che lessi fu Dimentica il mio nome, che ho comprato e riletto su Kindle e non si smuove di un millimetro dalla Top 3 dell’autore (peraltro, uno dei temi di fondo della storia si applica in modo fin troppo calzante alla tragedia in cui è precipitato il mondo negli ultimi anni).
Non ho trovato particolarmente mordente La profezia dell’armadillo, che sarà pure l’opera fondante di tutto il fenomeno Calcare, ma forse non merita riedizioni a ruota come invece sta accadendo (altra osservazione socioculturale: un tempo, l’opera prima di quasi tutti gli autori di una certa fama veniva giustamente messa in secondo e anche terzo piano, come il prodotto acerbo che quasi inevitabilmente era. Oggi, invece, non si può fare a meno di strombazzare le lodi del lavoro da cui tutto è cominciato).
Kobane calling sarà vittima dell’hype, hype indiscutibilmente nutrito dal fatto che finalmente il cazzaro di Rebibbia va a vedere scoppiare bombe vere invece delle bombe carta del discutibile amico di quartiere e si occupa di temi forti. Ma non so. Si vede un certo sforzo di Calcare di adattare al suo stile e ai suoi ritmi un racconto che non ci entra così bene. Sarà pure che era senza il suo abituale entourage, in un posto dove lui è un pesce fuor d’acqua. Ma l’opera non colpisce come mi aspettavo che avrebbe fatto.
A babbo morto, invece, è proprio farina Zero. Tipicamente suo, breve ma graffiante, come Kobane non riesce a essere pur nella sua enormità.
Dodici è carino. Un’opera minore, senz’altro, ma sempre piacevole.
Per quanto riguarda le raccolte, direi che Elenco telefonico e Scuola di pizze in faccia stanno su un gradino più in alto rispetto a Niente di nuovo.
Scheletri, dal canto suo, è un nuovo capolavoro. A fine lettura non ho avuto problemi a pensare che come peso, ritmo, stile e completezza dell’opera, forse ma neanche tanto forse, è anche meglio di Dimentica il mio nome. Anche in questo caso è veramente difficile discernere dove finisce l’autobiografia e inizia l’invenzione, quanto di vero di sé stesso Calcare metta a nudo (a proposito: tremila tavole in dieci anni. Va bo’, non disegna come Toppi o De Luca, ma porca lammerda). Ed è proprio questo, come anche nel suo altro capolavoro, che rende la storia così bella e intrigante.
Però... però... Dimentica il mio nome trascende le barriere. È un’opera per tutti, non solo per i figli degli anni Ottanta cresciuti a sale giochi e Stritfaiter e scarpe Nike e i cartoni di Italia Uno. E per me è un libro che andrebbe letto da più persone possibile.