Alla terza reiterazione della saga ufficiale DS offre di fatto l’approccio migliore al franchise. Se il primo DS può vantare tutti i vantaggi dell’esordio a cui si perdona molto, già il secondo DS ampliava il concetto di racconto in differita a mezzo di ricostruzione intuitiva da parte del giocatore. Un consiglio: leggetevi Dead Space Martyr, il prologo terrestre a ogni vicenda che riguardi DS. Molte delle immagini che si vendono nel corso del gioco possono essere correttamente interpretate solo dopo aver letto questo interessante romanzo-prequel.
In fondo il fascino di DS e la sua cifra stilistica consistono proprio nella capacità contemplativa dello spazio-gioco, un aspetto che nel gioco Visceral rappresenta circa la metà del valore intrinseco del titolo. E’ tutto un gioco di rimandi e citazioni all’interno della follia del culto unitologista e le conseguenze materiali della sua disumanità da ricavarsi attraverso l’irruzione nella vita corrente. Si possono passare ore ad ascoltare lamenti e pianti, a leggere sulle pareti messaggi che rimandano all’inconsapevole martire di questa religione, Michael Altman, la cui genesi somiglia molto a quella dei culti organizzati. Il filo logico che lega menzogna-forma liturgica e orrore fattuale punta il dito sul proprio della religione in sé, capace di sedimentare nel tempo il pervertimento dell’origine dei suoi assunti. Il simbolo è ricorrente in DS, soprattutto nel secondo episodio, l’essenziale nella religione che si esprime attraverso una concatenazione di simboli che portano il giocatore a relazionare follia e ritualità.
C’è poco da fare, per “giocare” a DS bisogna osservare parecchio, è un genere narrativo che è nato coi survival e fa gruppo a sé. DS3 sposta l’attenzione dal disumanamente smembrato (la realtà quotidiana di DS2 violata nelle vicende della stazione Titan) all’apocalittica aliena di stampo plotiniano, in cui “l’Uno” e i “Molti” letteralmente convergono allargando di fatto il respiro cosmico della vicenda e introducendo l’elemento archeologico. Tau Volantis è il luogo dove l’orrore è sempre visibile allo sguardo perso a scrutare skyline e nembi incendiati dal tramonto alieno, semplicemente il giocatore non può ancora sapere. Un altro passo avanti rispetto alle normalità violata del secondo episodio e all’imponderabile che fa da sfondo all’episodio originale.
Qui ci troviamo nel territorio del sacro disumanizzato: i documenti e gli artefatti unitologisti rivelano la forte impronta data dalla Convergenza ossia “principio universale unico, dinamico e intelligente che regge e guida il mondo e le creature di carne". Ma come capita all’uomo alle prese con poteri ignoti e transumani ogni manifestazione improvvisa e straordinaria di potenza è motivo di morte e di fatto la sua stessa origine, per cui l’Universo è pieno di Dèi o Divino, o anche, se si vuole, di un unico Dio-Corpo. A condizione però di considerare questo “Dio Unico” come una forza diffusa che si esprime in una moltitudine di simboli disorganici. Inseriti nella coscienza dell’umanità quindi essere uomo significa essere intrinsecamente schiavo, simbolo, culto e carne da offrire. Il terzo DS è di fatto ascensione verso il cuore stesso del senso del sacro: una forza che pervade l’uomo distruggendone la singolarità e lo trasforma in un Assoluto Impersonale. Un mysterium tremendum et fascinans, distrugge mentre ammalia.
In questo senso lo “spazio morto” è la conseguenza diretta di ciò che lascia la terribilità una volta che consuma il materiale di cui si alimenta. L’elemento uranico del pianeta ghiacciato viene associato alla trascendenza, poiché le zone sideree presentano determinazioni tipiche della deità: altezza, inaccessibilità, morte, stasi, trapasso la totale alterità rispetto allo spazio corrente. Il collegamento a stati particolari dell’esperienza umana confluisce nelle visioni di Isaac: estasi, sogno, visione, il volo magico, l’ascensione, la chiaroveggenza, la conoscenza del mondo spirituale come veicolo di catarsi. Quella totalità dell’Essere attingibile attraverso il percorso di ricerca e l’annullamento dell’essere circoscritto nella propria particolarità.
Avendo ben chiaro l’esito (parziale) della vicenda si comprende come il significato ultimo del Marchio non potrà mai essere esaustivamente spiegato dall’analisi scientifica condotta con l’applicazione dei metodi della storia, della psicologia, dell’etnologia e in ultimo della vicenda personale di Clarke, analisi pur sostanziali e irrinunciabili. Resterà sempre in esso un residuo irriducibile alla spiegazione, un non so che di originario che forse ci rivela il vero luogo, il vero posto dell’uomo nel cosmo, ossia il mistero terrificante celato dietro alla Convergenza.
Si parlava di uno spazio-gioco narrativo, è il caso di tornarci su. La tanto vituperata parte iniziale secondo me è proprio ben fatta, uno spaccato d’inferno sottovuoto e afono che in termini di esecuzione ha pochi precedenti nella storia del videogioco. La prima passeggiata nel vuoto profondo viene accolta con terrore e ansia, lanciarsi a gravità zero all’interno di un magazzino abbandonato è una cosa, avventurarsi nell’immensità un’altra…Detriti, curvatura dell’orizzonte, mancanza di punti di riferimento. Un ottimo step che scardina il piano illusorio della deambulazione classica e mostra in un secondo la bontà e la versatilità del motore grafico.
Successivamente, gli sforzi profusi per rimanere coerenti a quello che ci si aspetterebbe all’interno di strutture in un pianeta gelato hanno dello sconvolgente e testimoniano valori produttivi, di gusto e di verosimiglianza che hanno dello sbalorditivo visto l’altissimo risultato raggiunto. Non esiste un corridoio uguale ad un altro, una paratia che denunci uno sfruttamento intensivo e monotematico della stessa texture, tutto quello che è logico e naturale aspettarsi da un buon racconto di fantascienza trova posizionamento consono lungo i ponti e i livelli delle astronavi in orbita e nella superficie ghiacciata di Tau Volantis. Sale di proiezione, condotti di ventilazione, navette di raccordo, sala di controllo ampia e dominante, sito archeologico, padiglioni logistici: l’orrore sta nel rende il consueto mortale e il giocatore sa bene che tutto ciò che è stato concepito per altre mansioni può essere fonte di malvagità e pericolo. L’alta densità poligonale permette di scolpire luoghi ampi e dettagliati, volte gigantesche illuminate dai led, volumetrizzate da nebbia e oscurità, rese terribile dalla luce ondivaga di allarmi di sicurezza e neon sbiaditi, il colpo d’occhio coglie il piccolo oggetto e il grande ambiente quali realtà preesistenti alla visita del proprio alter ego. Fuori la neve imperversa sbiadita dal fulgore di un sole morto e di una luna morta e morente. Un luogo di traspasso in cui il concetto di dentro e fuori, aria e vuoto, sicurezza e pericolo vengono ben scanditi e offerti in tutta la loro estrema conseguenza.
La maturità di DS3 non è specchiatamente ludica però. Dagli esordi il focus è sempre stato quello di una ripulitura ragionata degli ambienti di gioco con la fluttuazione della controllabilità delle ondate nemiche. In fondo si gioca sempre nello stesso modo, con poche novità, si va dalla gestione del panico alla ricerca di safe spot utili alla negoziazione coi nemici fino alla configurazione più funzionale di armi e risorse. In questo senso è un gioco cresciuto assai poco negli anni, innestato nel solco residenteviliano dell’inquadratura ravvicinata in chiave ansiogena. Il gameplay si poggia sulle solide basi dei predecessori, la mira coercitiva ad arti e protuberanze rimane un punto di orgoglio per la serie. L’introduzione di nemici umani da combattere come uno spara muretti qualsiasi è detestabile in senso assoluto (i dettami dell’industria) ma non dispiace in senso relativo, visto che differenzia un po’ l’approccio. Convincente anche la reattività delle creature, tra movimenti sincopati, scatti repentini, attacchi differenziati e imprevedibilità trasformano tutto in un circo cremisi fatto di carne martoriata, budella, denti, arti affilati contribuendo a quel senso di malessere da survival horror in cui il divertimento consiste proprio nell’occuparsi del proprio panico in pochi secondi. Al livello Normale il gioco non si esprime al meglio, ci si può abbandonare allo spreco indiscriminato di risorse e proiettili. Consiglio almeno il livello Difficile, il solo modo per far venire fuori l’estrema bontà del sistema di crafting delle armi, troppo sottovalutato per me visto che è di una versatilità estrema.
Insomma, cosa dire? DS3 è il coronamento di uno dei franchise migliori di questa generazione, un titolo denso e divertente che adesso può aspirare a un destino più ambizioso. Vendite permettendo…