Finito due volte, prima a Difficile e poi a Normale. Nonostante ogni buon proposito, resto convinto della bontà del primo giro a Difficile, soprattutto per la non eccelsa lunghezza del titolo. Sì, ci sono passaggi un po’ ostici, soprattutto qualche boss che in principio fa di tutto per mascherare il metodo di approccio, però i checkpoint sono piuttosto vicini e il titolo così dà il meglio di sé. Il tutto, ovviamente, se si prevede una sola run altrimenti ogni pensiero è buono. Geniale l’idea di non accorpare gli obbiettivi dei livelli di difficoltà decrescenti, chi vuole platinarlo o millarlo deve farsi tre giri. Ehheehheheh.
Sì, ci sono degli spoiler su ambientazioni e sezioni. A mio avviso, vista la natura del titolo nulla di grave ma se preferite non sapere proprio nulla smettete di leggere.
Che l’opera sia geneticamente superiore si comprende già dalla mappetta in 2d alla Ghost & Goblins. L’incontro tra queste 3 menti eccelse ha partorito un gioco sfaccettata in cui ognuno ha messo a frutto quel talento specifico nell’arte dell’intrattenimento, non di certo un’opera paradigmatica in senso stretto, ormai da tempo, soprattutto Mikami, è più concentrato su un principio semplificativo del videogioco in senso assoluto, attraverso una filosofia di radicalità, di ritorno al gameplay in senso stretto. Della tripartizione, il terzo mikamiano si esplica nel cuore ricreativo. Questo concetto va subito chiarito: la pregevolezza del titolo sta proprio in quella filosofia del tutto arcade di stampo nipponico che vuole il videogioco un veicolo “semplice”di divertimento strutturato. La semplicità è un concetto molto frainteso e in parte detestato da chi non comprendere che i pochi elementi di partenza non per forza diventano automaticamente una povertà di utilizzo. God Hand, PN03, Vanquish, Shadow of the Damned: si privilegia un sistema di gioco riassumibile in pochi enunciati la cui discrezionalità e ricchezza sta nel uso che il giocatore vorrà farne. Comprendere la meccanica di un Vanquish è questione di decimi di secondo però allineare la propria bravura a tutte le possibilità che si dispiegano man mano è scienza del videogioco che, per essere chiara, non è e non sarà mai la somma accatastata di elementi che saranno al massimo sincretici ma non veramente essenziali. Certo, questo SotD non la sua opera migliore ma un prodotto che anche così è ben distinguibile dalla pochezza che impera in questa generazione “migliore di sempre”.
Pur trattandosi di uno sparattutto in terza persona alla stregua di un Resident Evil 4 più vivace, il titolo presenta una concezione più sofisticata attraverso l’introduzione di numerose interazioni arma/contesto/nemico. L’idea dell’oscurità onnipresente e asfissiante che uccide il giocatore in pochi secondi è una trovata che esclude ogni tranquilla scampagnata nel mondo della malvagità. Inoltre, il medesimo meccanismo innesca soluzioni offensive alla Ikaruga e il gioco è molto felice nel cambiare sempre le carte in tavola e non far adagiare il giocatore nell’abitudinaria pratica sparacchina. Il sistema a 3 armi la cui potenza è sempre inversamente proporzionale alla velocità e alla facilità di utilizzo è classicistica ma non per questo perdente. Dato l’estremo equilibrio delle forze in causa non esiste un elemento di spiccata utilità tale da affossare tutto il resto, in realtà ogni arma trova una sua giusta collocazione all’interno della tattica che si vuole adottare senza che vi sia la banalizzazione questa arma per quel nemico. Gli elementi di offesa e di difesa sono a disposizione di ogni interpretazione possibile e il gioco è particolarmente brillante nel restituire soddisfazioni e risultati, a patto di esprimersi al meglio. Energia finalmente non infinita, anche se il numero praticamente infinito di item curativi inficia un po’ questo brillante ritorno al passato.
Questi concetti respingono al mittente ogni possibile critica in merito al design ludico dei boss, troppo spesso additato come eccessivo e ridondante. Alla prova dei fatti SotD presenta boss di pregiatissima scuola nipponica, legati a pattern ben precisi e dalla pulizia esemplare la cui cattiveria è materia relativa all’approccio conoscitivo ed ermeneutico del giocatore. Nella durata standard del titolo possono trovarsi scontri giocati sulla comprensione di un meccanismo di fondo elementare ma sempre caratterizzante. Gli scontri con le Sorelle inanellano squisite procedure di osservazione, tattica ed esecuzione che la scontatezza di boss di matrice occidentale ci ha privato per lunghissimo tempo e non c’è uno scontro che sia uguale all’altro. In particolare, il boss di fine gioco si basa proprio ed esclusivamente sul principio di competenza del giocatore, la cui scarsa attitudine può trasformare un boss di massimo una decina di minuti in una battaglia di quasi un’ora e mezza. Leggibilità, tatticismo, applicazione, esecuzione: ovviamente chi sa creare e progettare videogiochi validi si muove agevolmente nella semplificazione del gesto, laddove pregiatissimi emuli non riescono, nell’affastellarsi di armi, meccaniche trite e polverosità videoludiche a cogliere l’essenza stessa del videogioco come strumento di sfida visiva e pragmatica. SotD andrebbe fatto studiare a chi si appresti ad intraprendere al via di game designer, per capire come bisogna fare e per comprendere quanto e cosa abbiamo perso in questo periodo di asfissiante omologazione ludica.
Anche il bestiario è molto convincente, per quanto pecchi forse in varietà assoluta. Dispiace che la prima ora tradisca lo spirito di sparatutto intelligente che in realtà caratterizza il titolo. Lo scopo era quella di presentare tutti i meccanismi progressione del titolo (luce/tenebra, portali assortiti, deambulazioni strane ecc.) in una volta per poi non doverci più tornare e lasciare libero spazio al design però l’effetto finale è quello di una frammentazione eccessiva dell’azione di gioco a scapito dell’anima action che poi viene fuori con prepotenza e forza. Io credo che molti si siano fatti un’idea sbagliata del gioco a causa di questa cosa.
L’apporto di Suda è quanto mai evidente in questo frullato horror pop capace di cambiare inaspettatamente registro con il procedere del gioco. Come da consuetudine, c’è un occhio rivolto al consumatore occidentale attraverso quella simulazione di opera di serie Z che nell’ultimo lustro esalta l’utente ultratrentenne, soprattutto al cinema. Al troncone principale della vicenda/ambientazione, ossia l’idea di un viaggio nel luogo del male assoluto e della disperazione si innestano una serie di stranezze ragguardevoli che privano il giocatore di qualsivoglia punto di riferimento. Grottesco, horror, ironico, poetico, languido, irriverente, volgare, epico: Garcia Hotspur è la parte idiota del Dante di DMC, tutto quello che rimane al netto di un cacciatore di demoni senza le suggestioni della paternità demoniaca e del cuore di carne che batte sotto la cristallizzazione del character design. Garcia è veramente un latin lover dal sangue caliente che rivuole la sua baby perché scopa bene e perché cucina da dio ma l’inferno che lo aspetta è più bizzarro di quanto possa esserlo lui. Una città di entità demoniache con tanto di società, hobby, peculiarità in cui però pesano le narrazioni gotiche dei demoni maggiori che abitano questo luogo, simile al contrappasso di Silent Hill. Praticamente ogni aspetto dell’horror è contenuto in questa piccola antologia e, pur assomigliando un po’ a tutto in realtà è anche originale. Il citazioni e l’autocitazionismo sono così radicati che ogni idea che vi si trova, seppur già digerita, è amalgamata in un tutto incoerentemente logico: da Rodriguez a Del Toro, da Lovecraft a Tarantino, da Poe a Ozzy Ozbourne, una spruzzata di narrativa alla Bukowski con immagini inquietanti alla Edward Gorey, il tutto in una girandola glam metal narrata attraverso al genialità dei testi di Johnson, il teschio parlante/arma che funge da Virgilio nel viaggio verso il male assoluto. La quantità immane di cazzate, freddure, idiozie e spontaneità che vomita per tutta la durata lo rendono una spalla irresistibile e assolutamente necessaria alla narrazione. Ovviamente il creatore di Killer 7 e No more Heroes non ha la carta bianca dell’opera totale e globale, i paletti dell’opera horror del 2011 rappresentano una strada ben definita e poco orchestrabile ma all’interno di questo contesto il lavoro svolto ha dell’eccellente. Il lavoro di design estetico sovrappone ovvietà catacombali con bizzarrie nipponiche ottenendo infine una varietà intrinseca che non trova momenti di stanca. Città trasudanti sangue, foreste demoniache, biblioteche dei morti, bordelli spiritici, caverne stillanti umori terribili, villaggi di dannati, bowling (?) pachinko (?) shoot’em up 2d alla R-type con grafica cartonata, tiro a segno, fughe disperate, navigazioni nell’ombra, nudità e doppi sensi ginecologici.
Ripeto, il tutto confezionato con sapienza per il palato occidentale che vuole stranezze e oscenità, anche simulate.
La colonna sonora è parte integrante del titolo al pari delle altre componenti. I temi del loading e del retry sono già nenie leggendarie però come per tutto il resto è la varietà a sorprendere. Da temi in puro stile Silent Hill a brani composti esclusivamente di urla laceranti a pop trash nippo irresistibili (il Sushi Lamp!) la disarticolazione musicale si equipara a tutto il resto contribuendo a formare questa follia che pervade anche l’udito. Canzone nippo punk d’ordinanza per i titoli di coda.
SotD è comunque tutt’altro che un titolo perfetto. La realizzazione tecnica nei freddi numeri è abbastanza povera e viene salvata dall’eccezionale direzione artistica. Glitch, bug e una tenuta non ottimale sono all’ordine del giorno e l’effetto è quasi quello di un titolo tecnicamente agli esordi di questa generazione. Inoltre ogni tanto, come per esempio al boss finale, qualche linea di programmazione sballata prevede colpi che non vanno a segno e portali che non si aprono, nonostante la procedura effettuata sia quella doverosa. La cosa più grave e che in più di una occasione inficia la prestazione ludica è una retinatura del puntamento non uniforme che tende a non inquadrare bene gli oggetti a cui sparare e che a volte fa sparire il mirino. Questa cosa, a livello Difficile, fa la differenza tra la vita e la morte.
SotD è una sorpresa, un piccolo grande titolo di pura scuola nipponica che si distingue per particolarità e divertimento. Non è il God Hand con pistola ma rimane un action game robusto e teso che fa quello che deve fare, divertire.