THERIANDROS IL GRIFONE DEL VENTO INSANGUINATO.
Il vento dell'Attica, Zefiros e Aurora, hanno sempre avuto una predilizione per questa terra, e la accarezzano con le loro brezze marine che scompigliano i capelli e li intringono di salsedine.
Io ormai non posso dire di avere predilizione per nessun luogo, in ogni dove le sferzate delle mie lame colpiscono con uguale intensità i corpi dei miei avversari scelti, e l'aere si tinge di rosso, il rosso del sangue.
Un vento insanguinato, questo è il mio nome nella battaglia, e poichè la battaglia è la mia vita e la mia casa, esso è il nome del luogo che prediligo.
Eppure, eppure qui nell'Attica ove gli dei hanno deciso di darmi i natali, qui vive un sentimento che in me si risveglia nei momenti di silenzio, e in essa mi riporta con la forza della nostalgia.
Il Grifone dell'Attica, questo era il mio nome, questa era la mia casa, nei tempi in cui non avevo battaglie da combattere o uomini da abbattere, che non fossero la mia immagine riflessa negli specchi d'acqua.
"Grifone del Vento Insanguinato, sempre con la testa fra le nuvole tu sei, il Maestro ti compatirebbe se io parlassi ora..."
La voce di Ciclope dell'Uragano è cupa e profonda, e si abbatte su di me improvvisa come un flutto inaspettato che voglia rovesciare la nave.
Nulla o poco conosco dei miei compagni di ventura, sono discepoli e avversari nella mia crescita verso la perfezione, l'unica vera forma di aretè che gli dei apprezzino al di sopra di ogni devozione direbbe il Maestro, e solo gli dei sanno quanto io voglia...quanto io voglia essere apprezzato.
Ciclope insiste e mi scosta dal tribordo della nave burlandosi di me, gli piace prendersi quel che ritiene gli spetti di diritto per via della sua forza, e io lo lascio fare, l'ho sempre lasciato fare, a me piace chiedere le cose per cortesia, è così che mi ha insegnato il Maestro, è così che la morte assume dignità sia per la vittima che per il carnefice.
A me piace fare così, perchè così piace al Maestro.
Mi sposto lentamente verso babordo,la vista non cambia, il mio stato d'animo neanche, odo distintamente Ciclope parlare da solo ad alta voce, se la prende col mare, col vento, con tutti...lascio che la sua voce roboante diventi un ritmo indistinto che mi aiuti a tornare alla mia nostalgia, a quel pensiero confuso che mi stringe il petto quando volgo lo sguardo ad Ovest, all'Attica.
Al tempo in cui nessuno mi insegnava la cortesia e la morte.
"Mostro, sei un piccolo mostro schifoso figlio mio...hihihi...ma la mamma ti vuole bene,hic...vuole bene a te, e a Bacco eh ehhhh".
Ondeggiava come un fuscello marcio di pioggia al vento della tempesta che le scuoteva i sensi, mia madre, o quanto ne restava nei momenti in cui faceva l'amore con i frutti della terra, aggrappandosi goffamente alle suppellettili di casa, rovesciando vasi, strappando tessuti, rovinando a terra tra risa e singulti ebbri.
Chi era quella creatura bellissima a cui nemmeno i fumi del vino riuscivano a togliere grazia, anzi aggiungendo al suo viso quel rosso fuoco sulle gote che tanto gli uomini bramavano?Poteva ella essere mia madre?
Mi chinavo mestamente raccogliendo i danni qua e la, mentre lei mi indicava continuando a ridere e biascicando improperi verso il suo vecchio marito, morto in guerra e lasciatala sola ad affrontare la vita con un figlio.
Come avrebbe potuto lei da sola sobbarcarsi tutto, senza un aiuto non disinteressato di qualche gagliardo giovane?
Un coccio di argilla rotto in mille pezzi alla mia destra, un calice scheggiato a sinistra, un piatto di bronzo di fronte a me, il mio volto in esso.
Il mio terribile volto, dissimile da qualunque altro avessi avuto la sorte di spiare da lontano, o la malasorte di incontrare faccia a faccia, instillando moti di orrore, o peggio, di scherno.
Quale che fosse la cagione di quella maledizione inspiegabile agli occhi di un fanciullo, mia madre l'avrebbe liquidata sempre con la storia della cattiveria di mio padre, e di come le colpe dei padri ricadano sui figli.
Io annuivo e piangevo a dirotto ogni volta, trascinandomi in un angolo della casa come un cane bastonato, le mie favole della buonanotte...
Ma le lacrime non erano per il racconto delle origini del mio male, ma per quello che le mie orecchie spiavano quando assieme agli occhi fantasticavo di dietro qualche cespuglio sulla vita degli uomini benedetti dagli dei.
Ed essi, gli uomini benedetti dagli dei, raccontavano di me, del Grifone dell'Attica, del mostro generato dalle voglie incontenibili di una vedova libidinosa, che per soddisfare la sua sete di passione non aveva mancato di accoppiarsi persino con una bestia del mito.
Raccontavano, e ridevano.
La nave beccheggia bruscamente e mi riporta al presente, non è la voce di Ciclope, ma un flutto inaspettato che vorrebbe rovesciare la nave.
Ma ora al sapore salmastro di Zefiro sembra essersi unita una nuova fragranza, profumatissimo olio di nardo dagli inebrianti sentori di femmina, un unguento che solo donne audaci e sfrontate oserebbero mai lasciare che uomini qualsiasi intuissero sul loro corpo.
"Medusa dai due Serpenti...", la mia voce è sommessa, sono ancora in parte immerso nei miei pensieri, ma non è solo questo, Medusa è donna di bellezza pari soltanto alla sua spietatezza, e per un uomo come me non c'è forse nulla di più spietato che ostentargliela lascivamente di sotto il naso.
"Grifone, ci appressiamo lentamente alla tua terra natale, chissà quante donne ci saranno ad attendere il tuo ritorno...", sogghigna, ma non è cattiveria, la mostruosità fisica è un concetto inutile, alieno alla nostra scuola, piuttosto seducente malizia.
Mi sfiora la schiena possente con i suoi seni turgidi, mentre le dita affusolate come la punta delle sue letali fruste stringono le mie spalle graffiandole, "Poche sono le donne che sappiano apprezzare la bellezza di un fendente perfetto nella sua plastica estensione, il vortice di sangue purpureo che riempia l'aria con la sua densa corposità.Grifone, sei un vero mostro di potenza...".
Le sue ultime parole sfumano suadenti come il dolce miele, lasciando quel retrogusto amaro che forse il miele non si aspetta, ma chi l'assaggi assapora ogni volta;si allontana da me sorridendo, sa di avere scosso il mio corpo e il mio spirito, sa di avermi sedotto ancora una volta.
Sa che io so' che un amplesso con lei finirebbe in un vortice sanguigno non dissimile da quelli prodotti dalle mie lame, gli uomini cadono ai suoi piedi in ogni caso, che usi la favella, il corpo o le armi.
Medusa, mia splendida compagna, hai trasformato la tua bellezza nella tua più grande mostruosità, chissà qual'è la tua cagione.
La osservo allontanarsi ancheggiando civettuola ma composta, il Maestro non ammette che si perda di eleganza nel muoversi dinnanzi agli altri, sarebbe una mancanza di cortesia.
Chissà qual'è la cagione di Thanatos, il mio Maestro.
La mia, ci volle poco tempo a figurarmene se non altro un accenno di origini, e come tutte le cose iniziano, anche questa precipuò allo stesso modo, dal molto piccolo.
Il sole inizia a picchiar forte sulla mia fronte, mentre il vento di Zefiros allenta la sua carezza sul mio volto imperlato di sudore, sembra che gli elementi si siano accorti che i miei pensieri volgano ora verso il fuoco della storia, quello che brucia le carni e lascia cicatrici inestinguibili.
Il piccolo furono l'ennesimo calice di troppo di vino di mia madre, e una mia accidentale difficoltà a prender sonno, visto che i sogni notturni erano i miei soli compagni, ciechi alla mia mostruosità, leali al mio bisogno di essi.
Mi a madre si lamentava ed agitava nel sonno, farfugliando parole incomprensibili, mentre io stavo sull'uscio di casa, fantasticando di dove venisse un ululato che si perdeva lontano nelle nebbie della piana.
Mi mossi lentamente verso l'interno, raccogliendo un pezzo di stoffa che avrei usato per detergerle la fronte e placare il suo tormento estatico, ma le sue parole paralizzarono ogni mia velleità di soccorso, fermandomi sull'uscio della sua stanza, le orecchie tese, il fiato rotto in gola, gli occhi umidi.
Parlava di Zeus, parlava...con Zeus?
Comprendere la verità e perdere i sensi mi sembrano oggi un tutt'uno, ma quei momenti dovettero apparirmi come senza fine allora.
La Lussuria di mia madre aveva corrispondenze di amorosi sensi addirittura divine, poichè lo stesso Padre degli dei si era spinto tra le sue braccia, trasformato in una bestia mitica, il Grifone, per possederla selvaggiamente, come immagino desiderassero fare molti uomini al tempo, quando ella era una donna a cui non si potesse chiedere altro che una passione travolgente ed insensata.
Io, Theriandros, ero il figlio di Zeus, ma non ne trattenevo alcun tratto divino.
Chiedermi il perchè non fu necessario, l'incubo di mia madre Lanteya continuava a raccontarmi di me.
Zeus non desiderava che l'ennesimo figlio suo destasse le ire della gelosa consorte, la divina Hera, e così per la prima volta forse si era sottoposto ad un seppur doloroso compromesso, dare alla luce un figlio non già divino, ma neppure umano.
Un mostro, il Grifone dell'AtticA, me.
La mia permanenza nel mondo di Hypnos non fu totalmente buia, il mio sonno e quello dei giorni a venire fu animato da strane visioni, in cui un vecchio canuto mi parlava dalla riva di una grande spiaggia.
Era gentile, mi carezzava la testa deforme con più amore di quanto non abbia mai fatto mia madre stessa, mi chiamava figliolo, e sembrava quasi scusarsi per la mia condizione, quasi che fosse sua la colpa, ma non mancando di aggiungere che quello sarebbe stato il nostro segreto, e che se non avessi detto a nessuno che Zeus stesso mi aveva generato, il giorno che ne avessi avuto bisogno, mi sarebbe bastato recarmi sulla riva di quella spiaggia e gridare il nome del nume trai numi, per ricevere ciò che mi spettava, anche se non sarebbe mai stato quanto ricevuto da Eracle, o Dioniso.
Non diedi troppo peso a quelle visioni, mi facevano compagnia ed erano confortanti di contro ai deliri bacchici di mia madre, inoltre mi piaceva pensare di avere un segreto inconfessabile, un patto stretto con qualcuno, per quanto fosse immaginario, era tutto ciò che mi legasse al mondo esterno, tutto quanto avesse almeno la parvenza di una amicizia, di una parentela, di un affetto guidato da una disciplina, da un reciproco scambio di doveri.
Ma io ero e restavo un bambino, e i bambini non riescono a tenere i segreti a lungo.
Soprattutto se non hanno amici a cui raccontarli.
Decisi un giorno di procacciarmene come farebbe un cacciatore coi conigli, li avrei attirati con il mio aspetto, gli avrei raccontato sussurrando tutto eccitato il mio segreto, gli avrei detto che sarebbe dovuto rimanere tra di noi, il nostro patto d amicizia.
E loro mi avrebbero amato e apprezzato, forse rispettato.
Ma i miei potenziali amici erano e restavano bambini, e i bambini possono essere molto cattivi.
Lanteya non aveva mai osato alzare le mani su di me, se per devozione verso il mio vero padre, se per timore di incorrere nella sua ira, se per ribrezzo nei miei confronti non saprei dirlo.
Il chiassoso gruppetto di bambini urlanti che decisi di fare miei amici fu molto contento di dimostrarmi che loro non avevano remore nel battermi, non perchè non rispettassero mio Padre, o perchè non ne temessero le ire o perchè gli facesse specie sfiorare il mio incarnato disgustoso.
Lo fecero perchè ero un Mostro, il Grifone dell' Attica, e ai bambini piace molto combattere contro i mostri, come i grandi eroi delle leggende.
Tornai a casa che si era fatta sera, da un occhio non vedevo quasi più tanto era tumefatto, oggi forse non riuscirei a ferirmi nemmeno radendomi, se ce ne fosse mai il bisogno.
Ma si sa che le ferite non sono solo quelle che si possano infliggere alla carne, e a casa ad aspettarmi c'era la prova lampante di ciò che sarebbe stata la lezione della mia intera vita.
Mia madre penzolava dal soffitto, un cappio di canapa spessa gli stringeva il collo delicato, il volto arrossato sulle gote, e per una volta avrei desiderato che fosse il vino.
Mi avvicinai al suo corpo tremando come una foglia al vento, sollevai mestamente una mano per sfiorarlo, e l'orrore mi esplose di davanti.
Il volto di mia Madre si animò di una vita innaturale strattonando grottescamente la corda, tremai e con me tutta la casa.
Gli occhi plumbei, i capelli come serpi di fuoco, la voce tonante come saetta di Zeus, ma beffarda e stridula come quella dei bambini poco prima.
Caddi all'indietro e arrancai lontano da quella visione, ma dalle sue parole non potevo sfuggire in alcun modo, esse risuonavano direttamente nella mia testa, come la dolce voce del vecchio canuto sulla spiaggia.
""Theriandros abominio della Grecia, ascolta la mia voce che come rombo di tuono ti scioglie le ginocchia e ti getta a terra inerme, io sono la consorte di Zeus, io sono Hera Madre, bella e invincibile."
I suoi capelli fiammeggiavano attorno al volto teso da una rabbia sovrannaturale,era mia madre e non era mia madre, una visione orribile e spaventosa persino per il più impavido dei guerrieri.
"Hai rivelato al mondo il tuo segreto, hai rivelato al mondo la mia vergogna e quella del mio sposo fedifrago, gettando fango sul nostro nome, sul nome degli dei, tu sciocco moccioso senza nozione dei segreti della vita!Nulla è la vita di tua madre dinnanzi all'ignominia che mai potrà essere lavata.Soffri per mano mia, poichè tuo padre è troppo vigliacco per cancellare i suoi errori d'un sol colpo, e la deformità che ti vessa è solo un pavido tentativo di nasconderli da parte sua.
Se solo la tua bocca avesse taciuto, oggi la tua seppur misera vita avrebbe goduto di maggior gioia.
Ora soffri per i tuoi errori e per quelli di tuo padre".
Le sue parole si interruppero all'istante assieme alla vita che animava il corpo di Lanteya, il quale ricadde come un vestito di donna su un corpo affusolato nel suo mortale silenzio.
Vomitai sul pavimento fino a non avere più liquidi nel corpo già sofferente per le percosse, poi fuggi via con le ultime forze rimaste, in una corsa forsennata verso l'ignoto.
Ma qualcuno nei cieli mi restava amico, e l'ignoto si materializzò davanti ai miei occhi ormai stremati dalla fatica e dalle lacrime in una grande spiaggia silenziosa, solo il frangersi delle onde a fare da eco al mio cuore.
Quasi stordito dal dolore e confuso dal turbinio di situazioni convulse che avevano animato i miei giorni recenti, presi ad avanzare verso l'acqua, immergendomi fino alla cintola ed oltre.
Non era indomita volontà di spegnere la mia vita quella, ma cieca follia in cui mi aveva scagliato crudelmente il destino.
La bianca spuma del mare egeo ormai stava per coprirmi il volto esanime, quando dal mio petto proruppe il nome di zeus, un grido stridulo e acuto, quanto di meglio mi consentissero le mie distorte corde vocali.
Quanto di più sgraziato abbiano mai udito le mie orecchie.
Ci fu un momento tra l'attimo in cui esso si spense tra le mie labbra arse dalla salsedine e quello in cui ormai la voglia di sparire tra i flutti si impadroniva di me, in cui mi sembrò che persino le onde fermassero il loro movimento, poi un fragore assordante sconvolse il mare, come un tuono che nascesse non dalla coltre di nubi ma dalla profondità degli abissi, e lentamente ma inesorabilmente le acque si gonfiarono del ruggito inarrestabile di un'onda gigantesca, che mi sommerse togliendomi ogni ultimo barlume di coscienza.
Ripresi i sensi non saprei dire quanto dopo, il sole sembrava aver arrestato il suo corso assieme ai miei pensieri, ero riverso nella sabbia, bagnato e dolorante.
Al mio fianco rilucevano degli oggetti sfolgoranti di quella luce cerulea che nasce quando il cielo si unisca al mare all'orizzonte.
Mi alzai con fatica, e a fatica mi avvicinai a quella novità che mi accecava la vista al riverbero del sole.
Non avevo mai visto armi, se non nella fantasia di fanciullo all'udire gli stanchi racconti di guerra sul mio patrigno, ma quelle che giacevano immote ai miei piedi andavano oltre ogni mia immaginazione, tanta era la loro bellezza.
Sollevai una spada, lasciando a terra la sua gemella, la soppesai goffamente e sorrisi nel constatare come il riflesso del suo filo al sole sembrasse tagliare persino l'aria.
Sulla lama risaltava in bei caratteri finementi cesellati una parola di cui seppi il significato solo anni più tardi, assieme al perchè avesse proprio quel significato.
Lo stesso valse per la sua gemella, e per la grande corazza di bronzo i cui imponenti pezzi sfolgoravano sulla sabbia come l'ossidiana tra le pietre laviche.
C'era anche un elmo, in foggia di testa di grifone.Che volto terribile era quello per un uomo.
Mi accovacciai nel tentativo di sollevare anche la pesante armatura, ma non feci in tempo a stringerla tra le dita che una voce cortese ma ferma proruppe alle mie spalle:
"Non è ancora il tempo per te di indossare i paramenti da battaglia, prima devi imparare a calcarne i campi".
Lasciai cadere a terra quanto le mie dita stringevano e mi tuffai verso una delle spade, ruotai con tutta la forza rimastami in corpo verso l'ombra che mi aveva oscurato il sole.
Come un martin Pescatore si tuffi dall'alto sulla preda, il braccio dell'uomo alle mie spalle si sollevò e ricadde fulmineo facendo volare via il brando, quindi fu il mio volto a ricevere il secondo rapidissimo fendente, scandito da un imperioso "Prima di affrontare un uomo, è buona norma presentarsi a lui nel nome, affinchè sappia contro chi leva le mani, e da chi fugge.Io sono Thanatos del vortice di buio."
Riuscii a farfugliare solo in parte il mio nome, poi scoppiai in un pianto disperato.
"Si, reazione appropriata di fronte al mio nome" disse l'uomo gigantesco che mi copriva la vista del mare col suo mantello nero, poi tese la mano e abbozzò quello che doveva essere una sorta di sorriso, "Vieni piccolo uomo, le lacrime sono per chi muoia o per chi nasca alla vita, scegli la tua via, poichè se oggi decidi di morire nessuno piangerà per te, ma se oggi decidi di vivere, molti piangeranno a causa tua."
Mi sollevai tremante, non avevo sentito nulla delle sue parole, tranne quel "Piccolo uomo".
Per la prima volta qualcuno non mi aveva chiamato mostro, per la prima volta qualcuno mi tendeva una mano.
"Prendi i tuoi paramenti, avrai con te solo quanto riuscirai a trasportare".
Era duro ed imperioso, ma alle mie orecchie suonava come giusto, mi affidava un compito, gli affidavo la vita, se avessi fatto bene il mio compito, mi avrebbe insegnato la vita.
Come un padre con un figlio.
L'armatura pesava come un macigno sulla mia piccola schiena già provata, ma in quell'attimo di fatica immensa gli occhi si posavano sull'incedere rassicurante di quella misteriosa figura che procedeva davanti ai miei occhi.
E per la prima volta ero felice.
Ancora oggi so, o forse credo di sapere, chi mi mandò quel dono sulla spiaggia, chi fosse il vecchio canuto dei miei sogni, e chi avessi deluso non rispettando il patto.
Ma non so se il mio Maestro Thanatos si trovasse li per volontà di Zeus di aiutarmi ulteriormente, per volere di Hera di tormentarmi ancora, o per il puro e semplice caso che fino ad un tratto della mia vita ritenevo governasse le mie vicissitudini.