A HISTORY OF VIOLENCE di David Cronenberg
Tom è un uomo tranquillo. Vive e lavora in una piccola cittadina e la sera torna a casa dalla sua famiglia. Un giorno uccide un rapinatore per legittima difesa, la sua faccia comincia a rimbalzare sulle pagine dei quotidiani e alla televisione, l'opinione pubblica ne fa una specie di eroe nazionale. Alcuni personaggi molto in vista cominciano a pensare che lui non sia altro che un loro collega scomparso misteriosamente molti anni prima. Tom dovrà recuperare stralci del suo pericoloso passato per salvare la sua famiglia...
Tratto da una graphic novel del 1997 creata da John Wagner e Vince Locke, A History of Violence rappresenta un’anomalia nella produzione cronenberghiana. Stavolta è la realtà a farla da padrone: nessuno sdoppiamento della personalità, nessun protagonista borderline, nessun trip mentale o informatico, dura e pura quotidianità e routine. Anch’esse terrorizzanti, ci mancherebbe altro.
A dispetto di una confezione insolita, così accentuatamente banale, a cominciare dal titolo, rispetto a quella, “altra”, cui Cronenberg ci aveva abituati in passato,A History of violence ripropone, con un linguaggio diverso, molte delle tematiche care al regista: c’è l’analisi sul singolo e sul suo rapporto con la famiglia ed il microcosmo in cui vive, c’è una location “aliena”, un piccolo paesino della provincia americana (in realtà canadese) in cui tutto sembra perfetto ed in ordine. Sentimenti e passioni dei protagonisti sono sepolti sotto una spessa coltre di perbenismo e statica normalità. Poi, a causa del famoso “problema del martedì pomeriggio che ti capita inaspettato”, tutto cambia.
Il pessimismo è diffuso e contagioso: tutti i personaggi sono ambigui o hanno qualcosa da nascondere, il film è freddo, raggelante. Cronenberg distrugge il mito della tranquilla provincia, ma, a differenza di molti suoi colleghi, scava in profondità e colpisce duro stomaco e cuore dello spettatore.
Il virus che annienta le difesa immunitarie della comunità nasce nel cuore pulsante della cittadina, il barbaro ai confini dell’impero ha via libera perché i cittadini gli aprono le porte volontariamente. Ed il castello di menzogne, ipocrisie e falsità, che regola i rapporti tra i personaggi crolla miseramente.
Lo stesso Cronenberg ha spesso definito (giustamente) questa pellicola un western ante litteram, col buono che non è buono, ma che imbraccia il fucile per eliminare cattivi più cattivi di lui, perdendo l’innocenza faticosamente riacquistata dopo un burrascoso passato e pagandone amaramente le conseguenze.
Il male è banale, perché fa parte della vita e la vita stessa è precaria. L’unica salvezza, negataci, sarebbe l’esilio o l’anonimato ma nell’America (mondo?) odierna, questo è un obiettivo impossibile da raggiungere.
Semplicemente strepitoso il cast, che dimostra un affiatamento ed una coralità invidiabile.Viggo Mortensen, sceso malconcio dal ronzino Hidalgo, trova una nuova dimensione professionale che conferma nuovamente come Hollywood, alla perenne ricerca di volti da blockbuster, debba rivolgersi altrove, Maria Bello, i tempi del Coyote Ugly sono passati, è sensuale e bellissima, mentre il fascino del male è incarnato alla perfezione dai luciferini William Hurt (alleluia!) ed Ed Harris, oggi come oggi, uno dei cinque migliori attori americani in circolazione.
Cinico e pessimista, triste ambasciatore di un messaggio semplice e sconsolante, film minimalista e lontano dalla visionarietà del passato, l’opera di Cronenberg è un thriller dell’anima insolito, riuscito, bellissimo, che si contrappone fieramente alla melassa natalizia che i cinepanettoni italioti (crasi tra italiani ed idioti) si preparano a propinarci…
Da vedere.
In sala dal 16 dicembre